Come nella più iconica tradizione islamica, il profeta si distacca progressivamente dalle cose terrene fino a scomparire del tutto, creando attorno a sé un mistero e un’aura leggendaria destinate a influenzare a lungo i fedeli intorno a lui. È anche così che si porta avanti il progetto del Califfato. Con simboli efficaci e una narrazione eroica che fanno da sostrato a una cultura della morte ai più incomprensibile.
In quest’ottica, il Califfo Abu Bakr Al Baghdadi – sul cui conto non circolano più notizie da mesi – non è semplicemente un comandante che verrà pianto dai suoi soldati come altri il giorno che sarà deceduto in battaglia. A loro si è soliti tributare omaggi in piazza, oppure intestare campagne di terrore e operazioni militari in loro nome, come accaduto ad esempio con Al Shishani, Al Anbari o Al Adnani. Lui, invece, è il “Califfo di tutti i musulmani” e, in quanto tale, la guida suprema che aveva scritto nel proprio destino il sacrificio. Che nella loro visione si traduce come “martirio”. Perciò, qualora fosse davvero deceduto come è stato detto più volte negli ultimi anni, Al Baghdadi non ha fatto altro che soddisfare le aspettative.
La sua morte, anche se o quando verrà confermata, non è dunque destinata a fiaccare la guerriglia dei miliziani del Califfato. Il martirio è nell’ordine delle cose. Esso è ahinoi un’aspirazione per i guerriglieri e mai una sconfitta, un obiettivo nobile da raggiungere che non ha alcuna accezione negativa. Solo chi ha paura della morte è il vero sconfitto. Molto meglio sarebbe prendere il Califfo vivo. Quella sì che sarebbe una sconfitta bruciante, un’umiliazione grandissima per l’intero Stato Islamico.
La storia si ripete. L’esempio di Al Zarqawi
Del resto, ne ha fatta esperienza il generale a stelle e strisce David Petraeus nel 2011. L’allora comandante supremo in Iraq e futuro capo della CIA, dopo che Abu Musab Al Zarqawi, il leader dell’insurrezione irachena contro l’invasore americano, trovò la morte nel 2006 centrato da un drone, dichiarò sconfitto AQI (Al Qaeda in Iraq). Confortato dal risultato, di lì a pochi anni Petraeus si convinse, così come l’intero Pentagono, di aver eliminato il terrorismo dell’Iraq e di poter finalmente lasciare il paese. Gli americani iniziarono così a smobilitare l’esercito, dichiarando nel 2011 “missione compiuta”.
Al contrario, invece, la morte di Al Zarqawi, uno dei più importanti leader di Al Qaeda di sempre, lasciò libero il campo all’ascesa di Al Baghdadi e segnò l’inizio di un terrorismo ancora più forte. Un terrorismo che si è fatto stato e che per tre lunghi anni ha terrorizzato due paesi interi e creato affiliazioni in tutto il mondo, conoscendo un’espansione senza precedenti per qualsiasi altra formazione terroristica
Tra il 2014 e il 2017 lo Stato Islamico è divenuto un’entità ed è andato oltre ogni possibile immaginazione. In nome di Al Baghdadi si continuano ancora oggi a occupare città nelle Filippine, si razziano villaggi in Nigeria, si combatte in Libia e persino nella simbolica Tora Bora, il mitizzato covo di Osama Bin Laden in Afghanistan, per lunghi periodi ha sventolato la bandiera nera del Califfato.
Mosul in Iraq è caduta, ma è stata rasa al suolo e la sua moschea simbolo non esiste più. Segno che qualcosa è cambiato per sempre e che con questo si dovrà fare i conti. Raqqa in Siria ha seguito la stessa sorte. Ma Deir Ezzor e altre località sparse tra l’est siriano e il deserto iracheno continuano a essere in mano al Califfato, e qui si coltivano già nuovi progetti, si studia come portare avanti la lotta e chi sarà il nuovo protagonista.
Il timore di nuovi attentati terroristici, specie in Europa, è concreto, ma il vero problema resta l’eredità di Al Baghdadi: dopo aver cancellato due Paesi dalle cartine geografiche, cosa accadrà al Medio Oriente?
Impedire la dominazione sciita
Gli uomini agli ordini del Califfo sono tutti estremisti sunniti, aiutati nelle conquiste del 2014 dal disciolto esercito di Saddam Hussein a trazione a sua volta sunnita e baathista (il partito del rais al potere), che voleva riacquistare il potere perso in favore degli sciiti con l’invasione americana.
Dunque, impediranno fino all’ultima goccia del loro sangue che si concretizzi un progetto regionale dove lo sciismo, di cui l’Iran è il principale motore, domini incontrastato. Il timore dei governi e delle élite sunnite – che trovano nelle monarchie del Golfo, e in particolare nell’Arabia Saudita, i loro principali attori – è che adesso si possa realizzare per via politica e militare un corridoio d’influenza iraniano-sciita che da Teheran attraversa Baghdad, Damasco e raggiunge Beirut, spingendosi fino al Mar Mediterraneo (con l’appendice dello Yemen, dov’è in corso una guerra civile). Un incubo tanto per i laici sunniti, quanto per la Fratellanza Musulmana, come per wahhabiti e salafiti, e per tutti coloro che temono di essere marginalizzati dalla minoranza sciita in Medio Oriente.
In questo senso, Al Baghdadi è stato solo un agente del caos, un destabilizzatore, un comandante spietato che ha brutalizzato le popolazioni locali per realizzare un regno oscurantista che impedisse la concretizzazione di un progetto politico mediorientale a trazione sciita.
Perciò, se da un lato si può tirare un sospiro di sollievo perché il regno di Al Baghdadi non si è concretizzato, dall’altra parte si deve già fare i conti con chi lo sostituirà alla guida dell’insurrezione sunnita, determinato ad arginare il corridoio sciita che si profila all’orizzonte. Quanto più quel disegno politico diventerà realtà, infatti, tanto più sarà foriero di nuovi guai e nuove sofferenze, di cui i terroristi rappresentano solo una conseguenza.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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