Il referendum autonomista in Veneto e Lombardia di domenica 22 ottobre è stato un ingegnoso artificio senza valore di legge, che però ha segnato un punto molto importante in favore delle destre nostrane. Grazie soprattutto alla litigiosità delle sinistre e alla mancata rivoluzione dei Cinque Stelle nel panorama nazionale, infatti, esse godono di nuova linfa e di un ritrovato dinamismo. Uno schema che ripete in piccolo quanto sta avvenendo in tutta Europa, dove i partiti socialisti implodono e dove populisti e xenofobi guadagnano terreno grazie al crescente malumore per le politiche economiche e securitarie dei governi dell’Unione.
Come se non bastasse, il referendum scozzese, la Brexit e ora il pervicace quanto inutile confronto Madrid-Barcellona sull’indipendenza della Catalogna – che, non dimentichiamolo, nasce più dal desiderio di non pagare le tasse al governo centrale che non da un vago senso patriottico di “liberazione” – hanno spinto le regioni più danarose d’Europa a gonfiare il petto e comportarsi egoisticamente in nome di un supposto bene superiore.
Grazie alla litigiosità delle sinistre e alla mancata rivoluzione dei Cinque Stelle nel panorama nazionale, le destre godono di nuova linfa e di un ritrovato dinamismo
E questo non poteva non riguardare Veneto e Lombardia. Ovvero due delle regioni più ricche d’Italia, le prime insieme a Lazio ed Emilia Romagna tra quelle non a statuto autonomo (come Trento e la Valle d’Aosta) che compaiono nella classifica europea del PIL e potere d’acquisto più alti. Annusando l’occasione irripetibile di un contesto storico favorevole, Milano e Venezia preparavano da tempo questo maquillage politico e hanno così scommesso su un blando quanto vago referendum autonomista, che non poteva non risultare vincente per i proponenti (ovvero la Lega Nord). Chi, ad esempio, avrebbe negato il proprio “Sì” alla domanda generica «Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?» per di più in un referendum non vincolante?
Se questo risultato positivo – plebiscitario in Veneto e tiepidamente benevolo in Lombardia – ha perciò scarso valore in termini strettamente economici e nessuno in quelli di legge, ne ha invece molti in ottica politica. Il serenissimo governatore Luca Zaia, all’indomani della vittoria ha dichiarato baldanzoso «chiederemo i nove decimi delle tasse» per la Regione Veneto, solleticando le fantasie di quanti credono possibile un affrancamento tributario da Roma. Ma in realtà l’ex ministro dell’Agricoltura punta a un risultato ben più personale, che sia confacente alle mire coltivate in seno al partito leghista: lanciare la “sua” Lega nella corsa elettorale della prossima primavera, scalzando anche Forza Italia dove il sogno di un ritorno berlusconiano è dolce quanto improbabile.
Il governatore del Veneto Luca Zaia punta a un risultato ben più personale: lanciare la “sua” Lega nella corsa elettorale della prossima primavera, scalzando anche Forza Italia
Zaia non si pensa propriamente come leader ma come premier designato della Lega, al posto di un debole governatore Maroni e di un troppo esuberante segretario Matteo Salvini. Il quale adesso si trova un competitor che non solo veste meglio di lui, ma è forte di un 57% di affluenza alle urne e di un 98% di adesioni alla sua proposta.
Difficilmente, il governo Gentiloni nel suo ultimo semestre di vita si metterà a trattare con la Regione Veneto la questione di uno statuto speciale. Piuttosto, questa vittoria prepara il terreno alle prossime elezioni politiche. Dove la destra rischia seriamente di vincere la partita, se proporrà un candidato all’altezza delle aspettative di quanti, nelle altre regioni d’Italia, chiedono meno magliette e più cravatte, meno slogan e più fatti. Zaia porta in dote il risveglio del Veneto, gli altri cosa fanno?
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