Da quando nel 2011 il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza dal Sudan, per lo Stato più giovane del mondo non c’è mai stata pace. Fuori dai radar del mainstream mediatico internazionale, il Paese è teatro quotidiano di scontri inter-etnici quotidiani che non si limitano più al solo duello per il potere politico nazionale tra i Dinka – gruppo maggioritario a cui appartiene il presidente Salva Kiir – e i Dinka – fedeli invece al capo dei ribelli, l’ex vicepresidente Riek Mackar. Lo dimostrano le violenze degli ultimi giorni nello stato centrale di Jonglei, dove in un regolamento di conti tra milizie tribali ci sono stati oltre 40 morti.
Un gruppo di uomini armati di etnia Murle ha ucciso almeno 20 uomini, 22 donne e un bambino e ferito altre 19 persone, tutti di etnia Dinka. La mattanza è avvenuta nel piccolo villaggio di Duk Payel, come dichiarato dal ministro dell’Informazione dello stato di Jonglei, Jongab Jocab Akech Deng. Tensioni si sono registrati anche nel vicino stato di Boma, dove giovani di etnia Murle hanno attaccato alcuni villaggi nell’area di Pibor. Si tratta solo degli ultimi di una lunga serie di scontri tra i Murle e i Dinka, in cui ai morti e ai feriti vanno aggiunti anche diversi rapimenti di donne e bambini, incendi di abitazioni e razzie di bestiame.
L’ONU, che in Sud Sudan opera con la missione UNMISS (United Nations Mission in South Sudan), ha comunicato attraverso il suo portavoce Daniel Dickinson di aver inviato pattuglie di peacekeeper e propri osservatori nell’area per impedire che ci siano altre vittime.
«Purtroppo quello in Sud Sudan non è più un conflitto solo tra nuer e dinka, ma si è trasformato in una guerra multietnica e multirazziale mossa da molteplici interessi», spiega Fabrizio Lobasso, ambasciatore italiano in Sudan. «Sono nate nuove fazioni armate – prosegue l’ambasciatore – come gli agwelek, gli shilluk, o i combattenti della provincia dell’Equatoria. Ci sono i fuoriusciti dall’SPLM-IO (Sudan People’s Liberation Movement-in-Opposition, agli ordini di Machar) che tendono all’autonomia. Corpi della Guardia Nazionale dell’SPLM (Sudan People’s Liberation Movement) del presidente Kiir fuori il controllo del governo. Si sta rischiando una “sirizzazione” del conflitto con un tentativo disperato di lanciare un dialogo nazionale che non vede ad oggi la luce. Le carestie, gli sfollati e i soprusi sono all’ordine del giorno. Ad oggi la situazione è ancora esplosiva».
In questa situazione, con il processo di pace tramontato immediatamente dopo la firma di un accordo nell’agosto del 2015, l’emergenza profughi non può che peggiorare. Il risultato, oggi, è che più di un terzo della popolazione nazionale (12 milioni di persone) è fuggita dal Paese, riversandosi principalmente negli stati confinanti del Sudan (oltre 1,5 milioni di sfollati).
«Ci sono centinaia di migliaia di sfollati che entrano in Sudan dal Sud Sudan talvolta attraverso le rotte darfuriane – prosegue l’ambasciatore Lobasso – I campi profughi non possono però diventare, come è accaduto nell’est del Paese, dei luoghi di accoglienza generazionali dove intere famiglie stanziano per anni poiché vi trovano il minimo per sopravvivere e non sono invogliate a una maggiore integrazione sociale. Il Sudan sta cercando di affrontare questa nuova emergenza sia attraverso la creazione di centri di accoglienza temporanei, sia attraverso il successivo smistamento dei profughi in campi più grandi sempre con l’obiettivo di evitare eccessiva stanzialità. In passato questo errore è stato fatto. Per i suoi confini molto porosi il Sudan si presta come Paese di transito per i migranti. Ma è anche un Paese di origine dei flussi migratori. L’Unione Europea ha investito molti soldi per contribuire alla gestione di questi flussi. Sul piano normativo locale sono stati fatti dei passi in avanti per il contrasto all’immigrazione clandestina e per fermare le tratte di esseri umani controllate dalla criminalità organizzata. In quest’ottica l’offerta di aiuto da parte dell’Italia è totale».
La storia del conflitto
Nel luglio del 2011 il Sud Sudan, il più giovane Stato del mondo, ha ottenuto l’indipendenza dal Sudan dopo oltre 20 anni di guerriglia che hanno causato la morte di oltre 2 milioni di persone e costretto alla fuga dal Paese più di tre milioni di persone. I primi scontri sono iniziati nel dicembre del 2013 quando il presidente Kiir accusò Machar di aver pianificato un colpo di Stato per far cadere il suo governo. In questo lasso di tempo il conflitto, come detto, ha visto contrapposte le due principali etnie del Paese: da un lato i Dinka, il gruppo dominante, fedeli a Kiir; dall’altro i Nuer, al fianco di Machar. Il risultato sono oltre tre anni di scontri etnico-tribali, con rappresaglie casa per casa, villaggi rasi al suolo, almeno 50mila morti e oltre 3 milioni di sfollati su una popolazione totale di 12 milioni di persone.
A fine agosto 2015, sotto la pressione delle Nazioni Unite e della comunità internazionale, le parti sono state spinte a firmare un accordo di pace. Per porre un freno alle violenze, soprattutto gli Stati Uniti hanno puntato su una strategia diplomatica aggressiva, minacciando di imporre pesanti sanzioni economiche e l’embargo sull’acquisto di armi al governo del Sud Sudan qualora Kiir non avesse seguito l’esempio di Machar firmando l’intesa.
Il patto prevedeva la fine immediata dei combattimenti e la deposizione delle armi da parte di soldati e guerriglieri entro 30 giorni, la liberazione di tutti i prigionieri e dei bambini-soldato, la demilitarizzazione della capitale Juba, la formazione di una sorta di “guardia nazionale” che avrebbe dovuto assorbire le forze di polizia, l’insediamento entro 90 giorni di un governo transitorio di unità nazionale chiamato a guidare il Paese per trenta mesi fino a nuove elezioni e, infine, l’istituzione di una commissione d’inchiesta per vigilare sul processo di riconciliazione e indagare su migliaia di casi di violazione dei diritti umani.
Successivamente, il 29 aprile del 2016, è stata annunciata la formazione di un governo di unità nazionale. Sulla carta si sarebbe dovuto trattare di un esecutivo di transizione chiamato a traghettare il Paese verso nuove elezioni entro 30 mesi. Ma a poco più di due mesi di distanza dal giorno della firma, di questo accordo è rimasto ben poco. Gli orrori degli ultimi mesi confermano che il Sud Sudan continuerà a fare i conti ancora a lungo con gli strascichi di un conflitto in cui entrambe le parti hanno commesso atroci violenze (uccisioni di massa, omicidi di bambini e stupri di gruppo) e sistematiche violazioni dei diritti umani. Una situazione di caos permanente per la cui risoluzione le grandi potenze occidentali non sembrano intenzionate a intervenire, essendo più interessate a tutelare i contratti petroliferi che hanno continuato a rispettare – e in alcuni casi a implementare – nonostante la guerra. Il Sud Sudan possiede infatti immensi giacimenti petroliferi, i terzi per estensione in tutta l’Africa Sub-sahariana.
Il fallimento delle Nazioni Unite
Nell’instabilità che regna sovrana da oltre tre anni, la missione ONU in Sud Sudan è finita più volte nel mirino delle critiche. Un rapporto del gruppo di ricerca con sede a Ginevra Small Arms Survey ha accusato la missione di aver fornito armi ai ribelli del Sudan People’s Liberation Movement-in-Opposition (SPLM-IO) guidato da Riek Machar nell’area settentrionale di Bentiu nel 2013. Armi con cui sarebbero stati compiuti massacri di civili.
Altre accuse sono piovute sulla missione nel luglio del 2016, quando nei giorni degli scontri tra forze governative e ribelli che hanno causato oltre 300 morti e migliaia di sfollati nella capitale Juba, i caschi blu non sono riusciti a trarre in salvo dalla mattanza molti civili ed evitare che donne, ragazzi e persino operatori umanitari subissero abusi sessuali. La decisione del Giappone di avviare a partire dall’aprile 2017 il ritiro del proprio contingente (circa 350 effettivi) da Juba dopo cinque anni di permanenza per le ripetute violazioni del cessate il fuoco, è lo specchio fedele dell’incapacità di questa missione di incidere sulle sorti di questo conflitto.
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