Per capire quello che sta succedendo nei palazzi del potere di Washington D.C. in queste ore, dobbiamo ricostruire l’intera storia che ha preso nome Russiagate, partendo dall’elezione del presidente Trump. Lunedì 13 febbraio 2017 il Consigliere per la Sicurezza Nazionale della nuova Amministrazione, Michael Flynn, ha rassegnato le sue dimissioni dalla carica. Motivo: aver taciuto al vice presidente Mike Pence parte del contenuto di conversazioni telefoniche scambiate con l’ambasciatore della Federazione Russa a Washington, Sergey Kislyak, il 29 dicembre e nei giorni successivi. Flynn all’epoca era stato designato quale capo del National Security Council. Cioè, il consigliere per la sicurezza nazionale. È qui il vero inizio del cosiddetto Russiagate. Che oggi, con la dichiarazione di colpevolezza rilasciata da Flynn all’FBI, sta conoscendo il suo apice e fa tremare la presidenza. Ma andiamo con ordine.
Il 12 gennaio 2017, cioè quattro giorni dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il Washington Post pubblica la notizia ricevuta da «fonti affidabili» delle conversazioni tra Flynn e il diplomatico russo. David Ignatius nel suo articolo sottolinea curiosamente un aspetto da pochi conosciuto: cioè che, se il consigliere designato avesse discusso del tema delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti alla Russia, avrebbe violato una legge nota come “Logan Act”, che proibisce a «privati cittadini non autorizzati di discutere di dispute con paesi stranieri».
Ora, non solo quella norma è oscura nei contenuti e risalente addirittura al 1799, ma è semisconosciuta e nota solo a pochi addetti ai lavori. Infatti, il giornalista lo scopre da una “gola profonda”, che lo imbecca sulla conversazione e gli fornisce anche la trascrizione dell’intercettazione telefonica sul colloquio tra Flynn e l’ambasciatore.
Dopo lo scoop del Washington Post, il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer dichiara ai media che, in effetti, Flynn ha scambiato «text messages», e cioè messaggi con l’ambasciatore. Il successivo 14 gennaio, Flynn informa il vice presidente Mike Pence di aver effettivamente dialogato con il diplomatico russo, ma di non aver toccato il tema delle sanzioni. Per il presidente Trump, però, questo è sufficiente per chiedergli di allontanarsi.
Nella sua lettera di dimissioni, Michael Flynn scrive: «Nell’ambito dei miei doveri come Consigliere designato per la sicurezza nazionale, ho avuto colloqui telefonici con molti interlocutori stranieri […] Queste telefonate servivano ad agevolare la transizione e a costruire le necessarie relazioni tra il nuovo presidente, i suoi consiglieri e i leader stranieri. Si tratta di una prassi standard in qualsiasi transizione di questa rilevanza». Flynn smentisce quindi di aver agito da privato cittadino ma ammette poi di aver fornito al vice presidente «informazioni incomplete sul contenuto delle conversazioni telefoniche con l’ambasciatore russo». Da qui le irrevocabili dimissioni.
Perché Flynn si dichiara colpevole
Ma ecco che adesso, dopo nove mesi di solitudine, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Flynn cambia idea e confessa all’FBI, che intanto lo ha incriminato, di aver effettivamente rilasciato false dichiarazioni. Condannandosi così a una pena che può costargli fino a cinque di carcere. Perché lo ha fatto?
«È stato straordinariamente doloroso sopportare questi molti mesi di false accuse di tradimento, e altri atti oltraggiosi. Però riconosco che le azioni ammesse oggi in tribunale erano sbagliate e, attraverso la mia fede in Dio, sto lavorando per rettificare le cose. La mia ammissione di colpevolezza e l’accordo per cooperare con l’ufficio del procuratore speciale [Robert Mueller, ndr] riflette una decisione che ho preso nel miglior interesse della mia famiglia e del nostro paese. Accetto la piena responsabilità per le mie azioni».
Accettando di collaborare con il procuratore speciale Mueller, Flynn dà a intendere che sarebbe pronto a testimoniare che sia stato Trump in persona ad avergli chiesto di contattare Mosca. Questo, almeno, è ciò che spera di dimostrare Mueller. Intanto, Flynn ha già confessato di aver ricevuto l’ordine dal genero del presidente, Jared Kushner. Il che apre uno scenario pericoloso per lo stesso presidente. Ma questo non spiega il “sacrificio” di Michael Flynn.
È evidente, sin da quando è scattata questa incredibile storia del Russiagate, che si sta ancora guardando il dito senza vedere la luna. Non è tanto la colpevolezza di Michael Flynn che conta. Né l’ordine di dialogare con Mosca. Né i rapporti tra la Casa Bianca e il Cremlino. È la volontà dell’FBI di mandare a casa Donald Trump con ogni mezzo possibile, il cuore di questa storia. E Michael Flynn rappresenta solo uno degli strumenti, al momento il più affilato in mano al procuratore Mueller che, guardacaso, è proprio l’ex direttore dell’FBI.
L’FBI vuole destituire Donald Trump
Il Federal Bureau of Investigation non condivide minimamente le idee di Trump. Non lo ha mai accettato e, quel che è peggio, non ripone alcuna fiducia in lui. Cosa che Trump ricambia con altrettanta diffidenza. Per questo, il 9 maggio scorso ha licenziato in tronco il direttore James Comey con una durissima lettera, dai toni senza precedenti nella tradizione americana. Trump ha comunicato a Comey che non appariva più «in grado di dirigere in modo efficace il Bureau rendendosi quindi necessario trovare una nuova leadership dell’FBI capace di riconquistare la fiducia dei cittadini nella sua vitale missione a difesa della legge» per il suo comportamento nelle indagini contro Hillary Clinton (sic!). A sostituirlo, è stato un più morbido Christopher Wray.
James Comey aveva sostituito Mueller nel 2013 ed era stato confermato alla guida del Bureau dallo stesso Trump, per cui aveva davanti a sé ancora sei anni alla guida dell’agenzia federale. Poche settimane prima del licenziamento in tronco, però, aveva richiesto fondi proprio per le indagini sul Russiagate. Cosa che ha fatto suonare un allarme nella stanza ovale. Che ha annusato la trappola e reagito. Ora, la mossa di licenziare il direttore dell’FBI è stata decisamente ardita. Ma lo è ancora di più da parte dell’FBI essersi fatto strumento politico, contravvenendo al suo ruolo neutro di organo di tutela delle istituzioni.
Un esempio? La produzione di un report contro Trump elaborato dall’FBI insieme alle altre tre principali agenzie di intelligence USA – National Intelligence, CIA, NSA – su mandato del presidente Obama. Fatto trapelare alla stampa ancor prima dell’insediamento di Trump, quel documento sarebbe voluto essere la “pistola fumante” del Russiagate, poiché all’apparenza conteneva notizie compromettenti che confermavano come il neo-presidente fosse ricattato dal Cremlino per i suoi affari in Russia e per le sue perversioni sessuali.
Insinuazioni gravissime, che si sono però dissolte quando è stato dimostrato che si trattava di falso. Uno così grossolano che lo stesso capo della National Intelligence, James Clapper, è stato costretto a diffondere un imbarazzato e confuso comunicato nel quale ha ammesso che le accuse contro Trump erano senza fondamento e provenivano da «un’agenzia di sicurezza privata», chiarendo anche che «le agenzie d’intelligence americane non avevano espresso alcun giudizio sull’attendibilità delle accuse». Ma il fatto rimane.
Il Bureau vuole fermare a ogni costo Donald Trump perché lo ritiene pericoloso. Così, con Michael Flynn ma anche con altri mezzi, cerca di mettere in stato di accusa il presidente. Anche senza prove tangibili. Ma è davvero questo il ruolo dell’FBI?
Quando viene meno il principio di leale collaborazione tra gli apparati d’intelligence e l’esecutivo, e quando sono i servizi segreti a pretendere di dettare la linea politica al governo con espedienti extra istituzionali, gli stessi servizi deviano dal loro compito, minando le basi della democrazia e scivolando verso il golpismo.
Alfredo Mantici
Ex capo del Dipartimento Analisi del Sisde, Direttore Analisi dI Babilon magazine e detective nel noto reality "Celebrity Hunted"
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