Secondo l’ultimo rapporto dei Servizi delle attività formative della Confederazione Svizzera (SIC), presentato il 30 novembre, sono almeno 100 le persone monitorate sul territorio nazionale perché ritenute pericolose o comunque a rischio. In totale, dal 2001 sono 93 gli individui partiti dal Paese elvetico per andare a combattere al servizio di gruppi jihadisti in teatri di guerra tra il Medio Oriente, l’Asia Centrale e l’Africa. Di questi, quelli con passaporto svizzero sono 33, mentre sono 19 coloro che hanno mantenuto la doppia cittadinanza. Nel dettaglio, si legge che 78 persone si sono recate in Siria e in Iraq, 15 tra Somalia, Afghanistan, Pakistan e Yemen.
I “soldati di Allah” morti in combattimento sono stati 27. Degli altri, alcuni sono rimasti nelle aree di conflitto, altri hanno scelto la via del ritorno in Svizzera con evidenti rischi per la sicurezza nazionale e, più in generale, per l’Europa. I casi di foreign fighters di ritorno confermati sono stati finora 14, mentre su 3 di loro sono in corso approfondimenti che rischiano però di essere lunghi e senza esiti certi.
Il Piano nazionale contro radicalizzazione ed estremismo
Il SIC ha poi reso noto anche che i dossier aperti per radicalismo islamico sono passati da 497 del 2016 a 550 del 2017. Parliamo di persone che si sono radicalizzate sul web sfruttando le “autostrade digitali” lungo le quali è estremamente facile entrare in contatto con soggetti che fanno propaganda dell’ideologia jihadista. Per far fronte a questa minaccia, il Consiglio Federale svizzero sta per annunciare nuove misure per contrastare il terrorismo contenute nel Piano nazionale contro la radicalizzazione e l’estremismo violento. Cathy Maret, capo della comunicazione del Dipartimento federale di giustizia e polizia, il primo dicembre ha anticipato sul Corriere del Ticino quelle che saranno le linee guida del progetto. A occuparsi direttamente del controllo del fenomeno della radicalizzazione saranno «i cantoni, i comuni e le città in particolare. Tanto che il Piano sarà appunto presentato dalle diverse conferenze cantonali dell’educazione, della socialità, di giustizia e polizia. Sarà un lavoro federale, cantonale e in collaborazione con le città. Perché in fin dei conti sono proprio i cantoni, i comuni e le città a essere veramente in contatto diretto con le persone».
C’è molta curiosità nel vedere entrare in funzione questo piano nazionale che, si spera, possa contenere anche delle severe misure da applicare nei confronti degli elementi considerati vicini ad ambienti jihadisti, a cominciare dall’imposizione del divieto per alcune organizzazioni salafite di fare proselitismo per le strade della Svizzera. Ma no solo. È lecito attendersi, ad esempio, rigide misure che impediscano il finanziamento a moschee e associazioni islamiche da parte di finanziatori del Golfo Persico, o dagli enti governativi della Turchia, Paese che agisce in maniera molto influente anche in Svizzera tramite il suo Ministero del Culto (“Dyanet”). Il denaro che arriva a fiumi da questi Paesi viene utilizzato per pagare gli stipendi di imam formatisi in Arabia Saudita o in Turchia, che però non rappresentano certo un Islam tollerante e progressista. A proposito di imam, nessuno sa né quanti né chi siano quelli che arrivano in Svizzera anche dai Balcani, come confermato dal Consiglio Federale su richiesta del consigliere nazionale Fabio Regazzi. Incertezze si hanno anche sul profilo e sulla provenienza dei “predicatori dell’odio” che spesso arrivano in Svizzera su invito del Consiglio centrale islamico svizzero (CCIS), organismo in cui è forte la componente salafita.
In occasione dell’ottavo anniversario del divieto dei minareti, circa 30 attivisti islamici si sono riuniti lungo la famosa Bahnhofstrasse di Zurigo per un flash mob trasmesso in diretta su Facebook. Hanno portato con sé apparecchiature audio e hanno intonato canti islamici. Al termine della manifestazione, Nicolas Blancho, leader del CCIS indagato dal Ministero Pubblico della Confederazione insieme ad altri due membri del Consiglio per «sospetta violazione dell’articolo 2 delle legge federale che vieta i gruppi Al Qaida e Stato Islamico, così come le organizzazioni a loro vicine», ha tenuto un discorso nel quale ha denunciato l’islamofobia che, a suo dire, dilagherebbe nel Paese. Di lui si sono recentemente occupate le cronache giornalistiche. Blancho ha infatti accumulato una serie di debiti, tra i quali spicca il mancato pagamento dell’assicurazione sanitaria. L’evasione ammonta a circa 200.000 franchi svizzeri (170.000 euro). Ma il predicatore salafita, al momento, può continuare liberamente in Svizzera e in molti altri Paesi d’Europa.
Tramonta il “sogno” dello Stato Islamico
Tra gli altri elementi che ha fatto emergere, il rapporto dei servizi segreti svizzeri ha messo in evidenza come nel 2016 dalla Svizzera non ci siano state più partenze per l’estero con «finalità terroristiche». Per quali motivi? Molto probabilmente, a causa dell’impossibilità – o quasi – di raggiungere Siria e Iraq attraverso la Turchia, Paese che ha sigillato i propri confini dopo che per anni vi sono stati fatti transitare combattenti, armi e carichi di petrolio.
Vi è poi l’elemento della sconfitta. Con la caduta di Raqqa e il dissolvimento territoriale dello Stato Islamico, è venuto infatti a mancare quel riferimento territoriale “forte” che dal 2014 era servito ad attrarre in Siria e Iraq migliaia di jihadisti da tutto il mondo. Ora che per gli aspiranti combattenti si è infranto il sogno dello “Stato perfetto” narrato dalla propaganda di ISIS, rimpiazzare quella promessa con qualcos’altro si sta rivelando complicato per l’organizzazione del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi.
Come noto di Al Baghdadi nessuno ha più notizie. Il fatto che nemmeno la propaganda jihadista ne faccia più riferimento in modo diretto potrebbe far credere alla sua morte? Oppure dobbiamo temere la possibilità che l’organizzazione si stia riorganizzando in attesa della fondazione dello “Stato Islamico 2.0” in Africa: non solo nella penisola egiziana del Sinai, ma anche nel nord-est della Nigeria (dove ISIS può contare sull’affiliazione di Boko Haram) o nella disastrata Somalia (dove esiste un’ala scissionista all’interno dei qaedisti di Al Shabaab, seppur nettamente minoritaria). Nel Maghreb, invece, l’affermazione del Califfato appare molto difficile vista la forte presenza di Al Qaeda.
Nell’insieme, anche quest’ultimi dati mostrano i limiti della strategia e della personalità di Al Baghdadi. A differenza del Califfo, il medico egiziano Ayman Al Zawahiri, leader di Al Qaeda, ha tessuto con pazienza e astuzia importanti rapporti con le tribù beduine che controllano i principali traffici che transitano per il Maghreb. È proprio questa capacità di scendere a patti con gli interlocutori locali che oggi sta consentendo ad Al Qaeda di sopravvivere allo Stato Islamico e di tornare a prendere pieno possesso della leadership del Jihad globale.
Stefano Piazza
Giornalista, attivo nel settore della sicurezza, collaboratore di Panorama e Libero Quotidiano. Autore di numerosi saggi. Esperto di Medio Oriente e terrorismo. Cura il blog personale Confessioni elvetiche.
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