Il 23 dicembre a San Francisco è stata evitata una strage grazie a un’operazione antiterrorismo condotta dagli uomini dell’FBI. A pianificare un massacro sul molo “Pier 39”, noto per essere un punto di passaggio dei leoni marini nella baia di San Francisco, era stato un cittadino americano convertito all’Islam, arrestato prima di entrare in azione. L’uomo si chiama Everitt Aaron Jameson, ex soldato dei marines, tiratore scelto, espulso dal prestigioso corpo per aver mentito sul proprio stato di salute (non aveva dichiarato di soffrire d’asma).
Da mesi era tenuto sotto controllo dalle autorità statunitensi attraverso un infiltrato che gli aveva assicurato piena collaborazione nel compiere atti terroristici. L’FBI utilizza questa tecnica per penetrare gli ambienti islamici radicali che negli Stati Uniti sono in continua crescita. Moschee e associazioni islamiche sono aumentate a dismisura nel Paese anche grazie alla sottovalutazione del fenomeno della precedente Amministrazione guidata da Barack Obama.
I foreign fighters americani
Dopo la conversione all’Islam, Jameson aveva cominciato a frequentare ambienti radicali non nascondendo sui social network la sua ammirazione per lo Stato Islamico di Abu Bakr Al Baghdadi. Il suo non è un caso raro ma solo l’ultimo dei convertiti “made in Usa” che hanno abbracciato negli ultimi anni l’Islam violento e che hanno agito in patria, ma non solo. Dall’inizio dell’ascesa del Califfato in Siria e Iraq nell’estate del 2014 almeno cento foreign fighters sono partiti dagli USA.
Prima di loro in molti avevano raggiunto i talebani in Afghanistan, AQAP (Al Qaeda nella Penisola Araba) in Yemen e gli Al Shabaab in Somalia. Quest’ultimo gruppo terroristico attinge combattenti dalla grande comunità somala presente negli Stati Uniti: sono circa 100.000 persone, delle quali 30.000 vivono nello Stato del Minnesota.
I convertiti “eccellenti”
Era cittadino americano dell’Oregon Adam Pearlman, alias Azzam Al Amrīk, ucciso da un drone nel 2015 nella regione pakistana del Waziristan. Conosciuto come “il talebano americano”, è stato uno dei più importanti collaboratori di Osama Bin Laden. Rispetto a lui a far fare un vero e proprio salto di qualità al jihad americano è stato però Anwar Al Awlaki (nella foto), il quale a differenza di Al Amrīk ha colto l’importanza di rendere il terrore islamista un “brand”, un marchio esportabile in tutto il mondo.
Anwar Al Awlaky è stato il primo cittadino americano è essere ucciso da un drone in un’operazione ordinata da Obama. Era il 2011, l’operazione si chiamava “Objective Troy” e nel blitz venne ucciso anche uno dei figli di Al Awlaky, il 16enne Abdulrahman, il quale si trovava in una delle auto della carovana che scortava il padre braccato dal Pentagono.
Nato negli Stati Uniti da una importante famiglia yemenita, Anwar al Awlaki aveva frequentato il college nel Minnesota. Dopo gli studi si era interessato sempre di più all’Islam, diventando un predicatore e aderendo in seguito all’interpretazione più radicale di questa religione. Come detto, Al Awlaki è stato il primo a credere nella potenza dei “media del terrore”. È stato lui, infatti, a fondare il giornale in lingua inglese di Al Qaeda Inspire, ed è stato sempre lui il primo a inondare la rete di sermoni violenti che fino a poche settimane fa si potevano ancora ascoltare su You Tube.
Sono stati tanti i suoi ferventi ammiratori: il soldato Nidal Malik Hasan, autore della strage di Fort Hood (2009); i fratelli Carnaev, autori dell’attentato alla maratona di Boston (2013); i coniugi Syed Rizwan Farook e Tashfeen Malik, autori del massacro di San Bernardino in California (2015); Omar Mateen, che nel 2016 uccise 49 persone in un club gay a Orlando in Florida. Tutti sedotti dai 70.000 video registrati dal predicatore americano-yemenita, tra i quali il celebre Call to Jihad del 2010 nel quale Al Awlaky esortava i musulmani di tutto il mondo a intraprendere il jihad armato in Medio Oriente.
Con la sua morte l’Islam radicale negli Stati Uniti ha trovato un’icona in cui credere, un martire al quale ispirarsi. Al punto che c’è chi pensa che Anwar Al Awlaky abbia fatto più morti da morto che da vivo.
Stefano Piazza
Giornalista, attivo nel settore della sicurezza, collaboratore di Panorama e Libero Quotidiano. Autore di numerosi saggi. Esperto di Medio Oriente e terrorismo. Cura il blog personale Confessioni elvetiche.
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