Due autobombe sono esplose quasi simultaneamente nel tardo pomeriggio del 23 gennaio a Bengasi, nel quartiere centrale di Al Salmani, cuore della Libia controllata dal generale Khalifa Haftar, uccidendo almeno 22 persone e ferendone oltre quaranta. Le esplosioni si sono verificate nei pressi della moschea Bait Radwan e presso un ufficio governativo.
Non si è però trattato di un duplice attentato terroristico rivolto contro la popolazione civile, come si sarebbe portati a pensare e come siamo abituati a raccontare da anni. L’obiettivo stavolta è militare, strategico, in ogni caso chiaro. Sono i vertici militari del Lybian National Army, che controlla la capitale della Cirenaica e il resto della regione.
Tra le vittime, infatti, ci sono i più alti esponenti della sicurezza libica tra i quali figura il capo delle Unità investigative, Ahmed Alfaytori, che sarebbe morto sul colpo, mentre il capo dell’Intelligence Almahdi Al Falah e altri dirigenti a lui vicini sarebbero gravemente feriti. Tra questi ultimi, si fa anche il nome del colonnello Belkasim Al Obaidi, capo del Direttorato della Sicurezza di Bengasi.
Gli autori dell’attacco
Manca la rivendicazione, come spesso accade in Libia. Ciò nonostante, a portare l’attacco, con molta probabilità, è stata una cellula terroristica che risponde al Consiglio della Shura dei Rivoluzionari di Bengasi, la coalizione che raggruppa le milizie jihadiste che si oppongono al generale Haftar. Ne fanno parte, tra gli altri, Ansar al-Sharia e la Brigata Martiri del 17 Febbraio, per citare i gruppi più attivi.
Ansar al-Sharia sino alla primavera del 2017 controllava ancora diverse aree della città simbolo della rivoluzione del 2011. Fino alla comparsa del Califfato in Libia, Ansar al-Sharia era considerato il gruppo jihadista meglio armato e più pericoloso, proprio insieme agli alleati della Brigata Martiri del 17 febbraio. Affiliato ad Al Qaeda e accusato dell’uccisione dell’ambasciatore americano Chris Stevens a Bengasi nel 2012, Ansar Al Sharia conta nelle sue leve centinaia di combattenti rientrati dalla guerra in Siria, ma ha perso parte del suo potere in concomitanza con l’avanzata dello Stato Islamico.
Il Generale Haftar aveva quindi annunciato la totale liberazione di Bengasi lo scorso luglio, dopo che intensi combattimenti erano andati avanti senza sosta per tre anni. Sin da quando, cioè, lo Stato Islamico aveva fatto la sua comparsa anche sulle coste del Mediterraneo, approfittando del caos e della destabilizzazione seguiti alla caduta di Gheddafi nel 2011, quando il paese si è spaccato in due.
Il suo esercito era avanzato a Bengasi con il supporto di commando delle forze speciali francesi (e si ritiene anche inglesi). La manovra militare aveva preso il nome di Operazione Dignità. Ma dopo l’apparente pacificazione, azioni di guerriglia e autobombe hanno continuato a falcidiare ininterrottamente la capitale della Cirenaica.
Chi comanda in Libia
Haftar oggi è il capo delle forze armate che rispondono al governo di Tobruk e rivendica il potere in tutto il paese, Tripoli compresa. Dove però si trova al governo Fayez Al Serraj, premier indicato dalle Nazioni Unite e sostenuto da Alba Libica, litigiosa coalizione guidata dalle milizie di Misurata, in prima linea nei combattimenti contro l’esercito del Colonnello Gheddafi già nella rivoluzione del 2011. Il governo di Serraj ha preso il nome di governo di unità nazionale.
Nell’agosto del 2014 Alba Libica aveva preso il controllo di Tripoli con il benestare del Muftì di Tripoli, lo sceicco Sadik al-Ghariani. Da allora, però, molte cose sono cambiate e all’interno di Alba Libica si è creata una frattura insanabile tra le milizie di Misurata e gli altri gruppi armati islamisti. Da questo strappo si è costituito ad esempio il Fronte Sumud, guidato dal comandante Salah Badi, uno dei gruppi che più hanno osteggiato l’insediamento del governo di unità nazionale a Tripoli.
Se Tripoli e il suo governo sono ostaggio di una serie di milizie islamiste cha cambiano alleanza ogni giorno, Bengasi ha invece trovato in Haftar l’uomo di riferimento. Il generale gode del sostegno del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi, del presidente russo Vladimir Putin, degli Emirati Arabi Uniti e inoltre proviene da una formazione americana, avendo vissuto là in esilio durante la dittatura di Gheddafi (del quale era però stato ufficiale).
Haftar in difficoltà
Haftar è tornato in Libia nel febbraio 2014, quando è apparso improvvisamente in tv in alta uniforme, per fare una dichiarazione sghemba alla nazione in cui affermava di aver preso il potere. Dopo pochi giorni, lancerà l’Operazione Dignità per cancellare manu militari quelle milizie islamiste che avevano preso il controllo di Bengasi, Ansar Al Sharia in primis. L’insuccesso parziale dell’operazione militare lo porterà ad anni di combattimenti e alla situazione attuale.
L’attentato ci dice molto in proposito. Aver colpito l’inner circle del generale Haftar, cioè le figure apicali attraverso cui l’esercito mantiene il controllo su Bengasi, è un avvertimento sin troppo chiaro: nessuno può sentirsi al sicuro in Cirenaica e il controllo che l’uomo forte dice di avere è relativo. La Libia, in definitiva, è tutto fuorché vicina alla pacificazione. Del resto, per restare alla Cirenaica, l’attentato all’oleodotto nel bacino della Sirte dello scorso 26 dicembre, che ha causato danni economici rilevanti e l’interruzione temporanea di fornitura del petrolio, la dice lunga sulle reali possibilità di fermare la guerra civile in breve tempo.
Nonostante i proclami di Haftar, infatti, intorno a Bengasi resta attivo un formicaio di combattenti islamisti e jihadisti, mentre l’esercito regolare non dispone né della formazione né di equipaggiamenti ed armi di precisione necessari per reprimere la guerriglia che gli islamisti sono decisi a portare avanti.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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