Il discorso sullo stato dell’Unione del più discusso presidente degli Stati uniti d’America è stato un vero successo. Per la prima volta, i media nazionali hanno dovuto ammettere che è stato seguito da almeno il 48% degli americani ed è piaciuto al 75% dei membri del Congresso, democratici compresi. Perché? Forse i toni moderati. Forse l’esperienza di un anno di governo. Forse un nuovo ghost writer. Fatto sta che il più importante discorso dell’anno del presidente ha funzionato e il capo di stato già intravede nel 2018 l’anno della propria affermazione. Insomma, Donald Trump è oggi più apprezzato che in precedenza, contrariamente a quanto la stampa liberal e i benpensanti di Hollywood vogliono far credere al resto del mondo.
L’ipocrisia statunitense, del resto, è arcinota e il ritratto impietoso che l’establishment democratico ha costruito intorno al tycoon newyorkese sin dalla sua candidatura, non rispecchia pienamente il suo operato né l’opinione del ceto medio statunitense. Certo, «persino il presidente degli Stati Uniti a volte deve mostrarsi nudo» cantava Bob Dylan, in riferimento alla necessità di smascherare il pensiero di chi si ritrova a sedere nello scranno più importante della Casa Bianca. Ma il personaggio Donald Trump è diventato addirittura un’ossessione per quella parte di americani che non lo volevano a Washington.
Trump ci ha messo del suo, andando persino oltre l’indicazione di Dylan e mettendo tutto se stesso e il suo ego al centro di ogni dibattito. Attraverso quel quotidiano twittare compulsivamente ogni idea che gli passa per la testa, ad esempio. Cosa che spesso non lo ha aiutato e anzi ha progressivamente allontanato la sua figura di leader da ciò che si suole definire “atteggiamento presidenziale”. Ma l’uomo è fatto così. E del resto, la prassi non deve essere rispettata per legge.
Il successo di Donald Trump
In ogni caso, per quanto il personaggio appaia ancora detestabile agli occhi di molti, nessuno può negare che le sue politiche stiano ottenendo un imprevisto successo. Il miglior termometro in questo senso è l’economia, che cresce oltre ogni aspettativa tanto negli indici di Wall Street quanto nei dati sull’occupazione e che, nel lungo termine, potrebbe per esempio riportare in auge l’industria pesante americana, rimpatriando molte delle fabbriche disperse lungo l’Asia in questi anni di forzata globalizzazione.
Sorvolando sulla politica estera, dove invece emergono poche luci e molte ombre della sua Amministrazione, il successo del “Mogul” (nome in codice con il quali il Secret Service identifica Trump, ndr) è evidente nella politica interna dove, nonostante gli attacchi quotidiani e le presunte rivelazioni di una condotta fraudolenta da parte del presidente e del suo entourage nei confronti di un paese straniero non alleato come la Russia, nessuna inchiesta sembra davvero in grado di scalfire il comandante in capo.
Questo perché fraudolento è stato semmai il tentativo di abbattere il 45esimo presidente degli Stati Uniti, costruendo contro di lui prove false per screditarlo agli occhi del popolo americano e del mondo intero. Di questo sono diretti responsabili il partito democratico dell’ex presidente Obama, insieme con la grande sconfitta delle passate elezioni Hillary Rodham Clinton, e l’FBI.
La sola ipotesi che il caso noto come Russiagate fosse basato su fatti illeciti e sovversivi si è rivelata talmente grottesca che non ha potuto portare altro che a qualche allontanamento di personalità molto vicine all’Amministrazione (per lo più per convenienza politica), senza tuttavia intaccare il cuore della catena di comando, dove siede stabilmente la famiglia Trump, tra l’altro oggetto di una campagna d’odio e discredito senza precedenti. L’eccentricità della famiglia Trump può non piacere e si comprende che risulti persino indigesta, ma non per questo rappresenta qualcosa d’illegale in seno alle istituzioni (chiedere a John e Robert Kennedy).
Il memo dell’FBI
Illegale è stato invece il tentativo da parte dell’FBI di costruire artatamente prove per plagiare il giudizio della Commissione intelligence della Camera che indaga sul Russiagate, allo scopo di far condannare – dalle opinioni ancor prima che dalle prove – l’uomo più inviso nel John Edgar Hoover building di Washington, sede storica dell’agenzia federale. È di queste ore, infatti, la notizia “bomba” secondo cui la Casa Bianca autorizzerà la diffusione di un memorandum segreto confezionato ad arte dal Bureau, che proverebbe un comportamento eticamente e legalmente illegittimo da parte degli agenti federali.
Il memo rivelerebbe come il Russiagate sia in sostanza una montatura, un complotto ordito per evitare a Trump di divenire e, in seguito, restare presidente. Il documento che Trump intende rendere pubblico non avvalendosi del segreto di stato in sintesi accusa l’FBI di aver costruito e manovrato sin dall’inizio quell’inchiesta, come «polizza di assicurazione» per danneggiare Trump e impedirgli di governare.
In realtà, di memorandum ce ne sarebbero addirittura tre: uno che dimostrerebbe come Barack Obama abbia fatto spiare il candidato repubblicano. Un altro dove il capo dell’FBI, James Comey, vero autore della sconfitta di Hillary Clinton, fa capire di non avere materiale per incriminare la candidata democratica, nonostante lui in persona abbia sollevato il caso “mailgate” durante la campagna elettorale che, come noto, ha messo in pessima luce l’ex first lady di fronte agli elettori. Un terzo memo documenta, infine, la discussione avvenuta nell’ufficio del vice di Comey, Andrew McCabe, dove si parlava proprio della «polizza di assicurazione» da utilizzare nel caso di vittoria di Trump. La polizza era, appunto, nei legami con la Russia.
«Il termine polizza di assicurazione», scrive Maria Giovanna Maglie, prima giornalista italiana ad aver trattato il tema senza pregiudizi «fu usato da Peter Strzok, investigatore capo del caso Trump, e fu mandato alla sua amante Lisa Page, avvocato dell’FBI. Il testo diceva: “voglio credere che l’ipotesi che abbiamo preso in considerazione nell’ufficio di Andy e cioè che non sarà mai eletto, sia quella giusta, ma temo che non possiamo assumerci questo rischio. È come una polizza di assicurazione nel caso raro di morire prima dei 40 anni”, Strzok scrive».
Cosa rischia il Bureau of Investigation
Dunque, ora sappiamo che quel memo esiste e che è potenzialmente in grado di distruggere la credibilità dell’intero Federal Bureau of Investigation, un’istituzione centrale per la sicurezza del paese, che rischia seriamente di essere rovinata se i suoi vertici dovessero in seguito essere accusati di un reato che si chiama abuso di potere, e che in questo caso si avvicina pericolosamente al concetto di alto tradimento.
A riprova della fondatezza dei sospetti sul Bureau, si aggiunga che a oggi risultano spariti nel nulla una lunga serie di documenti interni dove erano riportate le riflessioni dei dirigenti FBI durante i cinque mesi cruciali per l’attuale politica americana, cioè tra dicembre 2016 e maggio 2017. Insomma, la vicenda ha tutte le carte in regola per destabilizzare l’intero establishment americano. Ma questo sarebbe un male anche per Donald Trump, che forse eviterà di infierire sul Bureau a patto che i federali si rimettano in riga con le priorità assegnate dal governo. Almeno, questa è la speranza condivisa dalla maggioranza del Congresso.
Lo speaker alla Camera, il repubblicano Paul Ryan, intanto ha voluto smorzare i toni, sostenendo che l’impatto dei memo sarà relativo. Staremo a vedere. Di certo, la mossa del presidente Trump è audace e sembra più una reazione che non una precisa scelta politica. Probabilmente, il presidente avrebbe fatto a meno di mettere a nudo i segreti del Bureau, se i suoi dirigenti non si fossero comportati al limite della legge. Adesso, pare voler dire il presidente, la misura è colma.
Prudenza e comprensione
Ma, con il clima deteriorato e pieno di livori che si respira a Washington, per Trump lasciare che un’istituzione come l’FBI venga coperta di fango non gioverebbe alla sua causa. Il presidente sa bene che l’unico modo per uscire rafforzato da questa storia è ridimensionare l’intera faccenda e incolpare dei singoli per non ferire l’intero corpo del Bureau. Meglio insomma chiudere un occhio, a patto di ricevere rinnovata lealtà da parte dei federali. Altrimenti, una guerra intestina trascinerà nel caos tutte le istituzioni, Casa Bianca compresa, radendo al suolo la già limitata fiducia di cui queste godono presso la popolazione.
In ogni caso, come scrivemmo già lo scorso dicembre su Oltrefrontiera ricostruendo la guerra intestina tra il presidente Trump e l’FBI, resta la gravità del fatto. Perché «quando viene meno il principio di leale collaborazione tra gli apparati d’intelligence e l’esecutivo, e quando sono i servizi segreti a pretendere di dettare la linea politica al governo con espedienti extra istituzionali, gli stessi servizi deviano dal loro compito, minando le basi della democrazia e scivolando verso il golpismo».
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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