Con il dissolvimento territoriale dello Stato Islamico, sulle scrivanie di molti governi europei resta un dossier aperto: come gestire il rientro dei jihadisti nei loro Paesi d’origine? Molti di coloro che sono stati catturati in Iraq verranno giudicati e sconteranno pesanti pene detentive. Altri, invece, dovranno essere rimandati in patria: soprattutto donne e bambini, molti dei quali nati tra la Siria e l’Iraq nei territori che erano in mano al Califfato. L’Europa, anche su questo fronte, procede in ordine sparso. Ogni Stato, in assenza di una giurisprudenza comune, prova la sua “ricetta” per tentare di inquadrare e arginare il fenomeno.
All’ombra di questi tentativi cresce intanto un vero e proprio “business della deradicalizzazione“. Un ricco mercato creato dall’emergenza e che vede in prima linea associazioni e organizzazioni non governative che, in molti casi, non hanno nessuna esperienza in questo settore ma che sono comunque riuscite ad aggiudicarsi grossi appalti pubblici come è accaduto, ad esempio, in Francia.
Germania
Secondo gli ultimi dati diffusi dai servizi segreti di Berlino nel novembre 2017, i tedeschi andati a “servire” sotto le bandiere nere di Abu Bakr Al Baghdadi sono stati 960, sparsi tra Siria e Iraq. Circa 80 di loro sono stati catturati dalle forze di sicurezza irachene e siriane. Quelli che sono fuggiti riuscendo a rientrare in patria sarebbero circa 200-220, persone alle quali vanno aggiunti un centinaio di bambini.
Sono un pericolo? Come gestirli? Il governo tedesco ha creato delle strutture ad hoc per contrastare la radicalizzazione. È nato il Bureau of Information on Radicalization che collabora con l’Ufficio federale per la migrazione e i rifugiati (BAMS) e con altre quattro strutture associative tra le quali spicca la piattaforma Violence Prevention Network (VPN) attiva dal 2014. La VPN si occupa sia dei combattenti tornati in Germania che delle famiglie dei foreign fighters tedeschi, e per farlo si avvale di assistenti sociali, psicologi e medici oltre che di volontari. In ogni Land tedesco a un consulente speciale è stato assegnato l’incarico di gestire i casi più complessi. Costi e benefici dell’intera operazione? Il governo non diffonde cifre, ma è abbastanza semplice quantificare i costi in diversi milioni di euro. Più difficile, invece, è dare un valore ai benefici. Quanti di questi foreign fighters riusciranno realmente a reinserirsi nella società?
Belgio
Il Belgio, tra i Pasi europei maggiormente colpiti dal fenomeno jihadista in rapporto alla popolazione, sta adottando una politica di respingimento. Non è una strategia comunicata in modo esplicito, ma ad ogni caso che emerge si oppone al rientro in patria di cittadini che sono andati a combattere in Siria e Iraq, chiedendo che «i jihadisti che si sono uniti al Daesh vengano processati sul posto». Nell’estate del 2016 è stato lanciato il “Piano d’azione radicale” che si poggia su una serie di task force locali miste Polizia-Intelligence. Queste task force sono state dislocate in aree sensibili del Paese, tra cui Molenbeek, il quartiere di Bruxelles da cui provenivano i membri dei commando protagonisti degli attentati di Parigi del novembre 2015 e di Bruxelles del marzo 2016. Il loro obiettivo è monitorare gli elementi organici o vicini agli ambienti dell’estremismo salafita e gestire il rientro degli ex combattenti.
Per gestire l’enorme mole di dati che arrivano dai vari territori controllati, è stata creata una struttura di sicurezza integrata in cui confluiscono le informazioni che arrivano da servizi sociali, autorità di prevenzione e autorità amministrative. L’esperimento sta dando qualche risultato, almeno a livello di monitoraggio e prevenzione del fenomeno. Anche in questo caso, però, i costi a carico del contribuente sono enormi e i risultati si potranno giudicare solo nel tempo.
Francia
All’epoca della presidenza di Francois Hollande venne lanciato un programma nazionale che mirava alla deradicalizzazione dei soggetti vicini ad ambienti estremisti nelle quasi 800 “zone urbaine sensible” (“ZUS”), in totale circa 13.000 secondo le ultime stime.
L’iniziativa, nata sotto i migliori auspici, è però miseramente fallita. A dirlo è stata una commissione parlamentare del Senato francese, che il 22 novembre 2017 ha presentato un rapporto denominato Désendoctrinement, désenbrigadement et réinsertion des djihadistes en Fraance et en Europe.
Secondo i senatori incaricati di redigere il rapporto, il fallimento del piano è stato «totale», motivo per cui «deve essere completamente rivisto». In pratica, il programma di deradicalizzazione voluto da Hollande, messo in atto nelle carceri e in centri appositamente creati e costato decine di milioni di euro, non ha funzionato perché «la maggior parte degli islamisti non vuole essere deradicalizzata».
Le critiche maggiori sono state indirizzate, nello specifico, ai Centri di prevenzione, inserimento e cittadinanza (CPIC). Sulla carta ne doveva essere aperto uno per ogni area metropolitana del Paese (13). Di questi, però, ne è stato aperto soltanto uno a Beaumont-en-Véron, piccolo centro di tremila abitanti nella regione della Loira. Adattando allo scopo il castello Pontourny, il centro era destinato al recupero di individui in via di radicalizzazione. Meno di un anno dopo la sua apertura è stato chiuso. L’operazione è costata ai contribuenti 3 milioni di euro.
Danimarca
Dal 2011 dalla Danimarca sono partiti più di 140 foreign fighters. In proporzione al numero di abitanti, la Danimarca è il secondo Paese europeo con il più alto numero di combattenti stranieri partiti per Siria e Iraq dopo il Belgio.
Secondo la Politiets Efterretningstjeneste (l’agenzia per la sicurezza interna danese), 28 di questi individui hanno continuato a incassare il sussidio sociale mentre si trovavano nel “Siraq”. Per coloro che hanno deciso, o decideranno, di rientrare in patria e “pentirsi”, il governo di Copenaghen ha aperto 13 centri per la deradicalizzazione (budget per ognuno 500mila euro).
Il primo è stato aperto ad Aarhus, seconda città più grande del Paese. Il programma, denominato “Abbraccia un jihadista”, parte dal presupposto che i foreign fighters sono «vittime» e per questo vanno compresi, aiutati, sostenuti economicamente e al termine del loro «percorso» devono essere dati loro una casa e un lavoro. Anche in Danimarca i costi per la realizzazione di questo programma sono enormi. Il dato positivo, sostengono però le autorità, è che da tempo ormai non sono più partiti cittadini danesi per combattere al servizio del Califfato.
Svezia
Dalla Svezia sono partiti circa 300 jihadisti. Di questi, 120 sono tornati a casa e ad attenderli c’è un programma di deradicalizzazione simile a quello danese. Secondo l’intelligence e le forze di polizia svedesi che hanno monitorato lo sviluppo del progetto, non si sono avuti grandi risultati. È emerso invece che molte di queste persone hanno ripreso a frequentare esclusivamente i luoghi di preghiera dove si predica l’estremismo.
Stefano Piazza
Giornalista, attivo nel settore della sicurezza, collaboratore di Panorama e Libero Quotidiano. Autore di numerosi saggi. Esperto di Medio Oriente e terrorismo. Cura il blog personale Confessioni elvetiche.
Il bivio tra democrazia e dittatura
19 Nov 2024
L’economista Giorgio Arfaras, in libreria dal 1° novembre con il saggio Filosofi e Tiranni, edito da Paesi Edizioni. Il…
Come fare impresa nel Golfo
16 Ott 2024
Come aprire una società in Arabia Saudita? Quali sono le leggi specifiche che regolano il business nel Paese del Golfo…
Perché l’Occidente deve cercare un confronto con Orban
29 Lug 2024
Il sostantivo «cremlinologo» aveva certo molti anni fa una sua funzione, di là dal definire l'etichetta di uno…