Tra i paesi che saranno chiamati alle urne nel 2018 c’è anche il Brasile. Il prossimo autunno i cittadini dello Stato sudamericano si recheranno ai seggi per il rinnovo della Camera dei Deputati, di un terzo del Senato e, soprattutto, per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Il clima politico con cui il Paese carioca si appresta a vivere questi mesi di campagna elettorale è uno dei più tesi che il Brasile abbia conosciuto dopo la fine della dittatura militare nel 1984. Uno stato di tensione che si registra nonostante gli ultimi dati economici sostanzialmente positivi: nell’ultimo trimestre del 2017 il Pil nazionale è tornato ad aumentare dopo mesi di recessione; inoltre, il Fondo Monetario Internazionale ha stimato per il 2018 una crescita del 2%.
Una legislatura travagliata segnata dall’austerità
La tensione che si respira in Brasile è figlia di una altrettanto travagliata legislatura, iniziata tra le contestazioni che hanno preceduto e seguito i mondiali di calcio del 2014, proseguita con la grave recessione economica e che ha avuto il suo momento di massima criticità con lo scoppio dello scandalo giudiziario “Java Lato”, una sorta di “Mani Pulite brasiliana” che ha portato, nel dicembre 2016, all’impeachment del presidente Dilma Rousseff, sostituita dal suo vice Michael Temer, centrista leader del Partito del Movimento Democratico Brasiliano (PMDB).
Nei mesi seguenti Temer ha formato una nuova coalizione di governo insieme al Partito della Socialdemocrazia Brasiliana (PSDB) – che rappresenta la principale forza di centrodestra del paese – scaricando proprio il Partito dei Lavoratori (PT) di Dilma Rousseff e del suo predecessore Lula (già presidente dal 2003 al 2011).
L’azione di governo di Temer è stata contraddistinta da una serie di riforme unite dal filo conduttore dell’austerità: dalle privatizzazioni di importanti aziende pubbliche all’inserimento di un tetto alla spesa pubblica nella Costituzione, dalla riforma in senso liberista del mercato del lavoro alla controversa riforma delle pensioni tuttora oggetto di discussioni in parlamento.
Nonostante il +1,1% di Pil registrato a fine 2017, il malcontento e il disagio sociale nel Paese sembrano destinati ad aumentare. Un disagio che si materializza nella profonda disillusione e sfiducia dei brasiliani nei confronti della politica. Sentimento ben inquadrato dai dati di un recente sondaggio della prestigiosa Fundaçao Getulio Vagas, che ha rilevato un indice di disapprovazione per il governo pari all’83%, con un tasso di sfiducia generale nei confronti di partiti e politici che arriva al 78% (dato difficile da biasimare se si considera che il 40% dei parlamentari è indagato nell’ambito dell’inchiesta “Java Lato”).
I guai giudiziari di Lula: da favorito a ineleggibile
In questo quadro di assoluta sfiducia nei confronti dei politici, con il 77enne Temer che ha annunciato più volte la sua decisione di non candidarsi e con la Rousseff annientata politicamente dall’impeachment, il leader più popolare in Brasile resta proprio l’ex presidente Lula, che a inizio anno viaggiava su indici di gradimento attorno al 35%.
Lula, che in Brasile ha lasciato un buon ricordo soprattutto grazie alle sue politiche di contrasto alla povertà, già dall’agosto 2015 – dopo il primo crollo verticale della popolarità della Rousseff – stava pianificando il suo come back nella scena politica nazionale con un ritorno al Palacio do Planalto, il palazzo in cui ha sede la presidenza della Repubblica. Un progetto che, però, ha subito un brusco stop dovuto ai guai giudiziari dell’ex presidente, anch’egli coinvolto nello scandalo “Javo Lato”. Nel dettaglio, lo scorso 24 gennaio Lula è stato condannato in appello a 12 anni di reclusione dal Tribunale Federale di Porto Alegre per corruzione e riciclaggio. Secondo i giudici Lula avrebbe ricevuto un attico di 216 mq a Guaraja, nello stato di San Paolo, dalla società di costruzioni Oas, in cambio di appalti da parte del colosso energetico statale Petrobas. La sentenza, figlia soprattutto dell’azione del magistrato Sergio Moro, nemico mediatico di Lula, al momento impedirebbe all’ex presidente di potersi ricandidare per via di una legge varata dal suo stesso governo – la Lei fichta limpa – che prevede l’ineleggibilità per i soggetti condannati da organi collegiali, come il Tribunale Federale di Porto Alegre, anche se non in via definitiva.
A Lula, che si dichiara innocente e vittima di un golpe istituzionale, rimane ora la carta del ricorso al Supremo Tribunale Federale, con contestuale richiesta di sospensione dell’ineleggibilità da parte del Tribunale Superiore Elettorale in attesa di una decisione definitiva.
Su chi punterà il Partito dei Lavoratori?
A prescindere da come andranno le cose, tuttavia, è chiaro che la popolarità dell’ex presidente ha subito un calo drastico nelle ultime settimane a seguito della condanna. Fattori che, combinati, non permettono più di considerare Lula come il favorito indiscusso per le prossime elezioni e che è probabile indurranno a breve il Partito dei Lavoratori a pensare a dei profili di candidati alternativi. Come Marina Silva, ex ministro dell’Ambiente durante il governo dello stesso Lula, o come Giro Gomes, ministro dell’Integrazione sempre con Lula. Più difficile da ipotizzare un sostegno del PT a un’eventuale candidatura di Guilherme Boulos, leader del Movimento dei Lavoratori Senza Tetto, un’organizzazione di sinistra radicale che è attiva in tutto il Paese con una serie di occupazioni di edifici in nome del diritto alla casa.
Il centrodestra in cerca di un nome spendibile
Se i guai giudiziari di Lula rappresentano un durissimo colpo per le ambizioni del PT di tornare al governo del Paese, occorre segnalare come anche la situazione degli avversari non sia delle più floride. Con Temer che ha rinunciato alla candidatura, nel centrodestra in crisi di popolarità per via delle politiche di austerità dell’ultimo anno, si fatica a individuare un nome in grado di arrivare al Planalto. Il profilo su cui sembra puntare il Partito della Social Democrazia Brasiliana (PSDB) è Geraldo Alckmin, attuale governatore dello stato di San Paolo e già candidato contro Lula alle presidenziali del 2006. Alckmin, che è il presidente e leader del PSDB, è un politico tradizionale con una valida carriera di amministratore alle spalle ma sembra non far breccia nel cuore dei brasiliani dal momento che i sondaggi lo attestano attorno al 10%.
Un altro nome spendibile per il PSDB potrebbe essere quello del sindaco di San Paolo Joao Doria. Doria, già imprenditore edile e presentatore tra il 2010 e il 2011 di O Aprendiz, la versione brasiliana di The Apprentice – circostanza per cui è spesso stato accostato a Donald Trump – ha però a più riprese ribadito il proprio appoggio ad Alckmin. Il rapporto tra i due, eccellente durante la campagna elettorale di Doria in cui Alckmin si è fortemente speso in prima persona, ha però subito delle inclinazioni nelle ultime settimane e non sono pertanto da escludersi colpi di scena, soprattutto vista la crescente popolarità del primo cittadino paulista e i consensi non esaltanti del governatore.
Più defilate sembrano le ipotesi di una candidatura di Henrique Meirelles, attuale ministro delle Finanze la cui popolarità è molto bassa (al pari di quella di Temer), e di Aecio Neves, già candidato alle elezioni del 2014 – quando fu sconfitto per pochi punti al ballottaggio dalla Rousseff – ma anch’egli travolto dallo scandalo “Java Lato”.
L’outsider Bolsonaro: il «Trump brasiliano»
In questa situazione di incertezza per i due schieramenti tradizionali, il solo personaggio politico brasiliano che sembra avere il vento in poppa è Jair Bolsonaro, leader del Partito Social Cristiano (PSC). Sessantadue anni, in parlamento dal 1990, è un ex paracadutista dell’esercito che sta conoscendo un importante momento di popolarità per essersi fatto portavoce del sentimento anti-establishment.
Bolsonaro, che gode di un larghissimo seguito sui social, si è fatto notare in questi ultimi anni per una serie di uscite controverse – come la dedica al colonnello Brilhante Ustra, tra i protagonisti della dittatura militare, durante il voto per l’impeachment della Rousseff – e per alcune nette prese di posizione nazionaliste, contro l’immigrazione e a favore della vendita libera di armi per la sicurezza personale dei cittadini brasiliani. Posizioni che – unite a un programma economico che non manca di aspetti protezionistici, a un’apertura graduale alle privatizzazioni iniziate da Temer, a un taglio netto dei tassi di interesse e una visione geopolitica che vorrebbe portare il Brasile a rinsaldare i rapporti commerciali con gli Stati Uniti a svantaggio di quelli con la Cina (al momento primo partner del Paese carioca) – hanno fatto ribattezzare Bolsonaro come «il Trump brasiliano». Soprannome sicuramente più azzeccato rispetto a quanto non lo sia per Doria, tanto che è lo stesso ex paracadutista a esserselo attribuito in più circostanze.
D’altronde, sono ormai tre anni che Bolsonaro si sta preparando all’appuntamento elettorale del prossimo autunno. I sondaggi, in questo momento, lo accreditano attorno al 18%, dato al momento sufficiente per garantirgli un posto al ballottaggio contro Lula (qualora dovesse risultare eleggibile) o chi per lui nel Partito dei Lavoratori. Un’ipotesi che per Bolsonaro sarebbe assai favorevole, in quanto potrebbe catalizzare su di sé i voti del centrodestra – soprattutto quelli della comunità evangelica, che ha già mostrato segnali di intesa con il nuovo astro nascente della politica carioca – e avere così concrete possibilità di insediarsi al Planalto. Più difficile, al momento, ipotizzare un ballottaggio tra Bolsonaro e un candidato del centrodestra, se non altro per la scarsa popolarità di cui godono in questo momento i politici del Partito della Social Democrazia Brasiliana.
Mancano però ancora diversi mesi alle elezioni, e tante sono ancora le incognite da risolvere, eleggibilità di Lula in testa. Da qui ad autunno è prevedibile aspettarsi l’ascesa di nuove figure politiche e, probabilmente, altri colpi di scena.
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