Dopo diciotto anni al potere Vladimir Putin è stato confermato per un quarto mandato alla presidenza della Federazione Russa con un risultato senza precedenti. Nel 2000 aveva vinto con il 53% dei consensi, nel 2004 con il 71%, nel 2012 con il 63%. Al voto di ieri, domenica 18 marzo, si è aggiudicato la vittoria con il 76,6%, registrando dunque un crescente consenso nei suoi confronti. Da questa tornata elettorale in Russia emerge pertanto una leadership ancora più forte, sostenuta dalla stragrande maggioranza della popolazione russa e con la quale l’Occidente dovrà decidersi a fare i conti. Putin è un uomo politico di statura internazionale: può essere disprezzato e combattuto, ma certamente non può essere ignorato. Continuare a chiamarlo Zar è una semplificazione fumettistica che non porta da nessuna parte, così come non porterebbe da nessuna parte definire Di Maio o Salvini “il nuovo Duce”.
I numeri del voto
Nel seguire il voto in Russia negli ultimi mesi la stampa occidentale ha focalizzato l’attenzione soprattutto sull’esclusione del principale avversario di Putin, il blogger Alexei Navalny. La sua estromissione dalla competizione, decretata dal Comitato elettorale russo per i suoi precedenti penali, ha creato molto scalpore al punto da mettere in ombra un’altra esclusione eccellente, vale a dire quella di Silvio Berlusconi in Italia. Con Navalny fuori dalla corsa, il più votato alle spalle di Putin è stato Pavel Grudinin del Partito Comunista che ha preso il 12% dei voti. Sono però altri due i numeri che danno l’idea della portata della vittoria del capo del Cremlino. Il primo riguarda Mosca. Nel 2012 la capitale era stata l’unico grande centro del Paese in cui Putin non aveva preso la maggioranza dei consensi fermandosi al 47%. Ieri è arrivato invece al 70%. Il secondo numero riguarda invece la Cecenia. Nella terra in cui – a detta dell’Occidente – Putin ha condotto in passato due guerre “coloniali” reprimendo le istanze locali, a votarlo sono stati il 93% degli elettori.
Perché Putin ha vinto?
Ci sono due motivi essenziali che spiegano il perché del rafforzamento della leadership di Vladimir Putin. Il primo è stata la sua capacità di risollevare la Russia dal disastro dell’era di Boris Ieltsin, un presidente notoriamente dedito all’alcool che nel gigantesco progetto di privatizzazione dell’economia russa ha lasciato che un gruppo di suoi amici oligarchi si impossessasse di tutte le ricchezze del Paese. Appena assunto il potere Putin ha spazzato via quella classe dirigente e l’ha sostituita con un nuovo establishment proveniente principalmente dai servizi segreti. Putin ha scelto di affidarsi a uomini dell’intelligence non soltanto perché sapeva di potersi fidare di loro – avendoli avuti come colleghi o sottoposti prima al KGB e poi all’FSB – ma soprattutto perché rappresentano la vera élite del Paese. Il secondo motivo è di carattere economico. Putin è riuscito a tenere in piedi l’economia russa, la cui condizione negli ultimi anni è stata aggravata non tanto dalle sanzioni comminate da USA e UE quanto dal crollo del prezzo del petrolio e del gas. Putin ha risposto in modo autarchico alle sanzioni, e a pagarne le conseguenze sono stati soprattutto quei Paesi che esportavano molto in Russia, compresa l’Italia che negli ultimi anni ha registrato perdite nell’interscambi pari a 4,5 miliardi di euro.
La politica estera
Nonostante gli ostracismi dell’Occidente, Putin è riuscito non soltanto a consolidare la sua presa all’interno della Russia ma anche a rafforzare l’immagine del Paese all’estero. In Medio Oriente ha rimpiazzato l’inesistente politica estera americana ed europea. Ha preso in mano la crisi siriana, diventando il principale interlocutore non soltanto dei regimi di Damasco e di Teheran, così come del governo iracheno, ma anche un interlocutore valido per Israele. Senza dimenticare che ha messo un piede in Egitto appoggiando Al Sisi, e un altro in Libia sostenendo Haftar.
Per decifrare i rapporti con la Cina, basta pensare che il primo capo di Stato che si è complimentato con Putin per la sua vittoria è stato il presidente cinese Xi Jinping, seguito dai leader delle Repubbliche asiatiche. Il tutto è avvenuto nel mentre la rappresentante della politica estera dell’UE Federica Mogherini ha continuato a denunciare l’avvelenamento di un’ex spia russa a Londra, mostrando un palese deficit di comprensione delle relazioni internazionali.
Infine, per quanto riguarda “l’amore clandestino” con Donald Trump, finora non sono arrivati i risultati che molti si aspettavano. Gli USA hanno confermato le sanzioni contro Mosca e i toni della dialettica politica tra le due diplomazie restano molto accesi. Vedremo quanto quello a cui stiamo assistendo è un gioco delle parti, e quanto c’è invece di concreto. È probabile che, passate queste elezioni, nel momento in cui si abbasserà la polvere dei commenti superficiali potrebbe iniziare una fase di disgelo dei rapporti tra l’Occidente e la Russia. E un segnale importante, in tal senso, è arrivato dalla politica italiana con Renzi, Gentiloni, Salvini e Di Maio che a turno hanno chiesto un alleggerimento delle sanzioni contro la Russia. Potrebbe essere questa collettiva presa di coscienza a unificare, almeno in politica estera, la nostra classe politica dopo le ultime “traumatiche” elezioni.
Alfredo Mantici
Ex capo del Dipartimento Analisi del Sisde, Direttore Analisi dI Babilon magazine e detective nel noto reality "Celebrity Hunted"
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