Si oppone all’islamizzazione della società e alle misure autoritarie intraprese dal Governo del presidente Recep Tayyp Erdoğan: è Meral Akşener, che lo scorso ottobre ha fondato l’İyi Parti, il Buon partito, di orientamento nazionalistico, conservatore e laico, lanciando più di un’invettiva contro il ‘sultano’ di Istanbul. Questo soggetto politico può essere il nuovo catalizzatore delle opposizioni allo strapotere del Presidente.
IL RISVEGLIO DEI NAZIONALISTI
Le misure adottate dal Governo turco, indicate come un vero e proprio contro-golpe, nonché l’ultimo atto della lunga battaglia tra Erdoğan e Fetullah Gulen, hanno impresso una dura stretta alla vita politica e sociale della Turchia. Uno stato di cose che ha provocato non pochi malumori contro lo stesso Erdoğan, fin qui indicato come il vero e proprio padre-padrone del Paese: l’opposizione al “sultano” ha così iniziato a coagularsi attorno alla figura di una donna carismatica con un percorso che viene da lontano. Questa donna è Meral Akşener: una lunga militanza nell’MHP (Partito nazionalista turco) poi terminata per le incomprensioni con il leader Devlet Bahceli, accusato proprio di essersi appiattito sulle posizioni oltranziste di Erdoğan e di aver appoggiato le mire presidenziali di quest’ultimo. Il discorso politico della Akşener si è così sviluppato finora soprattutto contro la figura del Presidente. La Akşener ha promesso per esempio di ristabilire la libertà di espressione (limitata in maniera molto dura negli ultimi anni), di ritirare le misure che hanno portato all’incarcerazione di numerosi insegnanti e che hanno permesso l’arresto di giornalisti turchi e la chiusura di decine di quotidiani, e di eliminare le novità introdotte alla Costituzione dal referendum di aprile, che ha rafforzato ancora di più i poteri di Erdoğan. Il tutto partendo da destra, riunendo quelle frange nazionalistiche scontente dell’eccessivo potere ottenuto dal Presidente e stanche della diatriba profonda con i gulenisti.
GLI ULTIMI SONDAGGI
Un indicatore importante di questo, seppur parziale, cambiamento è da attribuire ad alcune rilevazioni, secondo le quali gli elettori che in passato non hanno appoggiato Erdogan pensano che sia giunto il momento per un nuovo partito di centrodestra: diversi sondaggisti hanno dato al partito della Akşener un ottimistico 10% dei consensi. Un dato forse esagerato, ma che potrebbe ravvivare un panorama politico fin qui destinato (le elezioni presidenziali sono previste per novembre 2019) a certificare la “democrazia autoritaria” di “Tayyp Baba”. Il potenziale della Akşener come voce critica dell’azione della maggioranza al potere preoccupa chiaramente la stampa filogovernativa, che si è prefissata di macchiare la sua reputazione. Erdoğan si è finora astenuto dal commentare i risultati della Akşener, ma è improbabile che resterà in silenzio a lungo. Alcuni osservatori temono che la 61enne possa seguire lo stesso destino toccato a Selahattin Demirtaş, attualmente incarcerato con l’accusa di terrorismo e in precedenza leader del Partito Democratico dei Popoli (HDP, Halkların Demokratik Partisi), che aveva visto le forze politiche curde superare la soglia di sbarramento, entrando in Parlamento alle elezioni politiche del 2015 per la prima volta nella storia.
L’ATTACCO ALLA POLITICA ESTERA DEL PRESIDENTE
In queste settimane la Akşener non le ha mandate a dire al Presidente turco: il terreno di scontro tra i due è stata la politica estera, divenuta vero e proprio banco di prova per Erdoğan. L’offensiva turca ad Afrin è cominciata circa un mese fa: il 20 gennaio le truppe di Ankara hanno lanciato un’operazione aerea e di terra a sostegno dei ribelli siriani contro le Unità di difesa del popolo curdo (YPG) nella regione settentrionale della Siria. La Turchia infatti considera l’YPG come una “testa di ponte” del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), che è stato dichiarato fuorilegge fin dal 1984. Il presidente Erdoğan, davanti al Parlamento, ha mostrato ottimismo e ha dichiarato che l’operazione «Ramoscello d’ulivo sta andando bene». La Akşener, tuttavia, ha criticato la conduzione dell’intervento da parte del Presidente e la sua unilateralità (anche se non le motivazioni): «Su Afrin abbiamo lanciato un’operazione tardiva che, in base al diritto internazionale, punta a garantire la sicurezza della Turchia. Questa non è una guerra, si tratta di un’operazione. È un processo legittimo. Erdogan ha detto che non si fermerà finché non sarà stato fatto tutto ciò che è necessario. In questo contesto l’Esercito siriano libero (FSA) si è rivelato nostro amico, sia dal punto di vista del diritto internazionale che da quello della politica estera turca. Resta il fatto che l’unico a decidere le linee della nostra politica estera è Erdoğan, neanche il ministro degli Esteri ha voce in capitolo: non abbiamo i mezzi per dire sì o no alle sue decisioni».
Stefano di Bitonto
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