«È inutile girarci attorno: è una crisi di sistema, quella a cui stiamo assistendo da più di due mesi e ieri ha assunto di ora in ora connotati sempre più drammatici. Bastava guardare il volto segnato di Mattarella, quando è apparso in serata al Quirinale al termine del terzo giro di consultazioni, finito come gli altri senza risultati, per capire che tutte le regole stanno saltando e il Paese si avvia a nuove elezioni a rotta di collo, come travolto da una valanga. Se l’arbitro non è più in condizioni di fermare il gioco, se la sua proposta viene respinta prima ancora che abbia il tempo di illustrarla, se sono i giocatori a dettare le condizioni senza più rispetto per nessuno, non si può più parlare soltanto di crisi politica, è molto di più: un fiume che ha rotto gli argini, una specie di inondazione, qualcosa di cui a questo punto è difficile, se non impossibile, prevedere le conseguenze».
È quanto scrive con acume Marcello Sorgi su La Stampa. E ha ragione da vendere. Seppure il tentativo del presidente della Repubblica abbia fondate ragion d’essere e sottenda a logiche e regole sulla carta ineccepibili, nell’era del populismo e dell’egoismo politico, queste logiche finiscono per non essere affatto comprese, e vengono anzi percepite come “manovre oscure” o persino tradotte come “diktat stranieri”. E chi più ne ha più ne metta.
È un vero peccato che il paese dei Papi e del Rinascimento, che ha partorito i Machiavelli e i Cavour, i Mazzini e i Moro, debba assistere inerme a questo triste spettacolo, che segnala sì un deficit di capacità strategica da parte dei suoi principali protagonisti – giovani dalle belle speranze ma dalla scarsa esperienza, verrebbe da dire – ma soprattutto racconta di un pericoloso stallo politico intorno al quale il Quirinale s’avvita da ormai sessanta giorni, tale che lo costringe a intraprendere una strada inedita e foriera di guai. Perché, se anche la figura del garante è rimasta coinvolta nell’impasse istituzionale, l’Italia intera è a rischio sbandamento come forse mai prima d’ora. Il capo dello stato, alle prese con una delle crisi politiche peggiori dall’unità d’Italia, ha infatti offerto il fianco ai populisti e ora rischia di trascinare il paese nell’incertezza più totale, considerato che è ostaggio di due giovani leader che sfidano regole e istituzioni e che considerano il suo ruolo più un fastidio che non altro. E se il parlamento è a loro immagine e somiglianza, ne consegue che siamo solo all’inizio di una stagione politica degenerativa.
Anche perché, come noto, questo paese è una Repubblica parlamentare e il potere effettivo risiede nel parlamento eletto dal popolo e non nel capo dello Stato. È l’insieme delle Camere, infatti, a nominare il presidente della Repubblica che poi, su suggerimento della maggioranza parlamentare scaturita dal voto, nomina a sua volta il Presidente del Consiglio e l’intera squadra di governo. Come da Costituzione, insomma, il potere è e resta in mano a deputati e senatori. Mentre il capo dello Stato, che pure riveste un ruolo determinante, alla fine dei giochi nulla può contro le Camere riunite.
Tutto ciò, però, non è mai stato sufficientemente raccontato né è ben conosciuto dai cittadini, la maggior parte dei quali crede ancora che, con il proprio voto nell’urna, abbia determinato il prossimo premier. Quante volte abbiamo sentito dire: «Ho votato Di Maio», «io invece Salvini»? Non è così. Si è votato per i rappresentanti del parlamento, la somma delle cui intenzioni contribuirà all’elezione di un certo capo del governo. E non sarà certo un Sergio Mattarella a farglielo capire adesso, né la RAI o il Ministero dell’Istruzione hanno mai saputo comunicarlo efficacemente (e neanche i giornalisti).
Così, quando il presidente della Repubblica sarà costretto a scegliere un presidente del Consiglio terzo, finirà sulla graticola così come già fu per Giorgio Napolitano, soprannominato beffardamente “Re Giorgio” per i suoi presunti eccessi nei poteri di nomina. Di certo, specie di questi tempi, il regicidio è diventato uno sport nazionale. E, ovviamente, anche Mattarella ha delle responsabilità indiscutibili nel non aver saputo prevedere o evitare questo stallo. Anche perché è proprio in questi momenti d’incertezza che dovrebbero emergere la forza e la marcia in più del capo dello Stato. Al contrario, lo sgarbo istituzionale del duo Di Maio-Salvini – che hanno anticipato le proprie posizioni a consultazioni ancora in corso rendendo inutile e persino umiliante l’intervento di Mattarella – segnala la debolezza del Colle di fronte al nuovo che avanza, e ciò richiede una riflessione drammatica.
Le nostre istituzioni sono ancora in grado di farsi rispettare? Sono capaci di guidare il paese nei momenti difficili? O sono piuttosto ostaggio di se stesse, confinate in un dialogo salottiero che nessuno comprende più fuori dal Palazzo? Tutto questo è colpa della sola legge elettorale o c’è dell’altro? E, in caso affermativo, chi può fermare questo spettacolo pietoso che, giorno dopo giorno, erode ogni certezza circa il futuro politico, economico e sociale dell’Italia? Le urne, ca va sans dire, non sanno offrire risposte. Eppure il mondo ci guarda, e non pochi sono pronti a scommettere contro di noi, lieti della nostra debolezza, perché consapevoli che ne possono facilmente approfittare.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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