Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrein hanno salutato con favore il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare (JCPOA) siglato da Barack Obama nell’aprile del 2015, cioè appena tre anni fa, e già dissolto con l’insediamento della nuova Amministrazione Trump.
In particolare, il quotidiano del governo saudita Al-Riyadh, in un editoriale del 9 maggio 2018, intitolato “Washington Has Had Its Say”, ha benedetto l’intera operazione come un «evento storico internazionale» e fotografato la situazione attuale: «A seguito di questo annuncio, l’accordo diviene in effetti una cosa del passato, con il ritiro da esso del paese e superpotenza più grande». Come a dire che ogni parvenza di resistenza da parte dell’Unione Europea e dei suoi principali rappresentanti, è un tentativo inane di mantenere in piedi ciò che è già crollato.
Ma c’è chi, tra i sostenitori di questa decisione, ha fatto di più: lo Stato di Israele. Infatti, la notte del 10 maggio Gerusalemme si è spinta in profondità nel cuore della Siria dominata dagli Ayatollah iraniani, dove ha condotto l’attacco aereo «più massiccio dal 1974». I raid, condotti secondo Russia Today da 28 caccia israeliani F-15 ed F-16, hanno colpito «decine di postazioni iraniane» in territorio nemico sganciando 60 missili aria-superficie; nel senso che la Siria, o quel che ne resta, è ormai de facto un avversario di Israele non solo per l’irrisolta questione del Golan, ma proprio per l’alleanza stretta con Teheran. L’attacco sarebbe avvenuto in risposta al lancio di «oltre 20 razzi» sulle postazioni delle forze armate israeliane lungo le Alture del Golan compiuto dai Pasdaran iraniani. Di questi razzi, almeno quattro sono stati intercettati dal sistema di difesa israeliano Iron Dome, gli altri sono caduti in territorio siriano.
La linea israeliana-americana
L’episodio racconta molto di più di un semplice episodio di guerra: infatti, da un lato segnala la condotta muscolare che l’IDF (Israel Defense Forces) ha intenzione di mantenere d’ora in avanti, dall’altro racconta come l’ennesimo scontro diretto tra Iran e Israele sia in realtà il primo dalla decisione americana. Il che prelude a una nuova stagione di attacchi diretti contro Teheran con il placet di Washington D.C., che – ormai è chiaro – avalla e usa le incursioni di Gerusalemme come se fosse direttamente il Pentagono a colpire. Tutto ciò, visto e considerato che l’Amministrazione ha deciso di sposare la linea arabo-sunnita-israeliana di depotenziamento regionale della minaccia russo-persiana, che tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 è stata sul punto di avere uno strapotere tanto in Siria quanto in Iraq.
Se quella degli Stati Uniti non si può definire una “guerra per procura”, insomma, poco ci manca. Trump sa bene che una guerra diretta in Medio Oriente potrebbe compromettere il suo cammino verso il midterm e la rielezione – appuntamenti su cui il ‘clan Trump’ punta moltissimo – perché le questioni interne restano predominanti per il sentiment americano, e le guerre pesano molto allorquando il popolo si reca a votare (basti ricordare la prima guerra del Golfo: George H. W. Bush vinse contro Saddam, ma perse le elezioni!).
Per il Pentagono, questa condotta militare è preferibile a quasi tutti gli altri scenari, poiché questi prevedrebbero rischiosi ingaggi diretti, un invio di soldati in prima linea (oltre alle poche migliaia che comunque già sono presenti nel deserto siro-iracheno), un iter di approvazione lungo e faticoso con la sponda tra i corridoi di Casa Bianca e Congresso. Molto meglio effettuare bombardamenti mirati una tantum, ridurre al minimo i voli dei caccia e mandare avanti i più agguerriti opliti israeliani – per i quali la deterrenza alla minaccia iraniana è questione di sopravvivenza – e via decidendo, in base alle circostanze (ricordate i curdi che hanno liberato Raqqa?).
La contropartita
Ovviamente, la contropartita richiesta dai diretti interessati – Israele e Arabia Saudita – non poteva che essere lo stralcio dell’accordo sul nucleare e il ripristino delle sanzioni economiche contro il regime degli Ayatollah, a dimostrare la buona fede di Washington e la garanzia di un supporto concreto e di lungo termine da parte degli USA.
Per Riad e Gerusalemme, dunque, la fine dell’accordo è una vittoria netta. Basti vedere la reazione del premier Netanyahu che, grazie allo scudo americano, è fiducioso di poter affrontare persino una guerra di maggior intensità; e ancora la reazione dei sauditi che, per bocca dei loro organi d’informazione, avvertono: «Sebbene l’Iran e altri soggetti che traggono vantaggio dall’errore del gruppo P5 + 1 (cioè il JCPOA, ndr) stiano minimizzando il valore dell’annuncio di Trump, questa battaglia è finita. E se l’Iran è davvero interessato a tornare nella comunità internazionale, deve cambiare il suo comportamento e abbandonare il suo percorso aggressivo […] La minaccia della politica iraniana alla pace e alla sicurezza del mondo deve essere affrontata con una prospettiva globale che non si limiti al suo programma nucleare, ma includa tutta la sua attività aggressiva, in particolare la sua ingerenza negli affari dei paesi della regione e il suo sostegno al terrorismo».
Le variabili dei novanta giorni
L’unica variabile che né Gerusalemme né Riad hanno considerato fino in fondo è il potere ostativo del Congresso degli Stati Uniti, cui spetta l’ultima parola sull’accordo nucleare. Parola che verrà messa nero su bianco tra due mesi, secondo l’iter legislativo, cui va sommata la variabile di quei 90-180 giorni necessari affinché le sanzioni prendano davvero forma. Cioè affinché le imprese e società finanziarie escano dai contratti già in essere. Ovvero un tempo più che sufficiente per dare spazio a nuove manovre diplomatiche e a dietrofront a oggi non prevedibili, che potrebbero sconfessare la linea attuale della Casa Bianca.
Tutto questo sarà reso più chiaro dallo storico incontro Donald Trump-Kim Jong Un previsto nel mese di giugno a Singapore. Perché? Perché la Corea del Nord ha favorito l’arricchimento nucleare iraniano e viceversa, essendo stati per lungo tempo i due paesi sotto embargo, complici e solidali. Se tra un mese Pyongyang otterrà davvero la pax americana (anche grazie ai buoni uffici cinesi), Teheran rimarrà ancor più isolata di quanto già non fosse. E ciò andrà a tutto vantaggio dell’asse Washington-Gerusalemme-Riad. Se invece tutto questo non dovesse concretizzarsi, le variabili in favore di Teheran si moltiplicheranno. Fermo restando che le chance dell’Iran si affievoliscono all’acuirsi di ogni vantaggio ottenuto in campo siriano.
Articolo pubblicato sulla rubrica Oltrefrontiera di Panorama.it
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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