Il 29 maggio a Parigi si è tenuto un atteso vertice sulla Libia organizzato dal presidente francese Emmanuel Macron. L’unico risultato tangibile ottenuto al termine del summit è stata una dichiarazione, approvata solo oralmente dal premier del Governo di Accordo Nazionale Fayez Al Sarraj e dal generale della Cirenaica Khalifa Haftar, in base alla quale le elezioni parlamentari e presidenziali si terranno il prossimo 10 dicembre.
In attesa di capire se questa dichiarazione d’intenti si tradurrà in una concreta chiamata alle urne, la cui vigilia è stata più volte scossa da attentati e scontri tra milizie a Tripoli così come a Bengasi, pubblichiamo un articolo sulle prossime elezioni libiche di Andrea Morigi pubblicato sul numero 1 di Babilon.
Entro la fine del 2018 in Libia si prevede di tornare alle urne, per la quinta volta dopo il 2011 che segnò la morte di Muammar Gheddafi e la conseguente caduta della Jamahiriya. È un progetto del rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite e capo dell’UNSMIL (United Nations Support Mission in Libya), Ghassan Salamé, approvato da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza.
Secondo le statistiche pubblicate dalla Commissione, al primo febbraio sono già 2.267.000 gli elettori registratisi per le operazioni di voto. Il dato degli iscritti è di per sé superiore al numero di 1.484.723 voti espressi nelle elezioni del 2012, ma si stima che gli aventi diritto al voto siano circa 4,5 milioni.
Ecco perché le operazioni di registrazione, iniziate il 6 dicembre 2017, sono state estese fino al 15 febbraio per «fornire la più ampia opportunità per coloro che non sono riusciti a registrarsi per partecipare a questo evento storico», come ha affermato Emad Al Sayeh, presidente dell’Alta Commissione elettorale il primo febbraio scorso, convinto che «il numero di votanti registrati finora ha rispecchiato la consapevolezza dei libici dell’importanza delle elezioni come una vera scelta democratica».
ACQUISTA IL NUMERO 1 DI BABILON
Dunque, al di là delle difficili condizioni sociali e politiche, pare che vada affermandosi una tendenza dei cittadini libici a individuare una via d’uscita democratica alla crisi del loro Paese. Nemmeno l’esito incerto delle precedenti tornate elettorali impedisce di tentare nuovamente una soluzione che conduca a una maggior stabilità. Lo scenario attuale vede una divisione etnico-territoriale delle istituzioni dello Stato unitario che, benché regolarmente elette, sembrano ricevere la loro rappresentatività politica dagli equilibri fra le tribù e le milizie e la loro capacità di iniziativa da interessi economici e geopolitici esterni.
È ipotizzabile, dunque, che anche le forze politiche che si candidano a governare si muovano sull’asse delle appartenenze e delle relazioni internazionali. In questo senso potrebbero essere interpretate anche le parole del presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, che il 2 febbraio scorso a Tunisi, ha dichiarato che l’attacco in Libia del 2011 è stato un «grave errore» perpetrato dalle grandi potenze mondiali, e che il bombardamento «non era la giusta soluzione in quanto quest’azione militare non rientrava in una chiara tabella di marcia politica e diplomatica». Il rinnovato protagonismo del Regno Unito nella Regione e il tentativo del governo italiano di favorire il dialogo fra le parti sembrano andare nella stessa direzione.
Sul fronte interno, l’attore principale si candida a essere da un lato il generale Khalifa Haftar, a capo dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) sostenuto dai governi del Cairo e di Mosca, mentre non è ancora chiaro se, nello schieramento opposto, gli interessi dei Paesi europei e occidentali che formalmente appoggiano il Governo di Unità Nazionale di Tripoli guidato dal premier Fayez Al Serraj condurranno alla convergenza su una candidatura unica oppure su un appoggio condizionato allo stesso Haftar, allo scopo di evitare una nuova situazione di stallo.
Vorrebbe tornare a rivestire un ruolo di protagonista sulla scena nazionale perfino Saif Al Islam Gheddafi, secondogenito di Muammar. Di certo, è nell’interesse di tutti porre fine al periodo di transizione in atto da ormai sette anni. L’obiettivo è l’approvazione di una Costituzione, da sottoporre poi a referendum, che funga da cornice a un processo di pacificazione, ma non è certo che tutti gli ingredienti necessari per seguire la ricetta siano disponibili.
Innanzitutto, lo svolgimento delle delicate fasi di voto potrebbe essere compromesso dall’azione di bande armate che, in assenza di un’unica forza di sicurezza a garantire il processo democratico, metterebbero a rischio i risultati delle consultazioni e la loro legittimità. L’azione di contingenti militari stranieri sul territorio, in questo contesto, potrebbe essere percepita come un’ingerenza indebita negli affari interni del Paese e contribuirebbe ad alimentare il risentimento verso le ex potenze coloniali. Ma l’alternativa a tutto ciò è che fra le diverse fazioni continui a scorrere il sangue, mentre i proventi del petrolio potrebbero accontentare tutti i partiti.
Redazione
La redazione di Babilon è composta da giovani giornalisti, analisti e ricercatori attenti alle dinamiche mondiali. Il nostro obiettivo è rendere più comprensibile la geopolitica a tutti i tipi di lettori.
Come fare impresa nel Golfo
16 Ott 2024
Come aprire una società in Arabia Saudita? Quali sono le leggi specifiche che regolano il business nel Paese del Golfo…
Non c’è più la politica di una volta
26 Set 2024
In libreria dal 20 settembre, per la collana Montesquieu, Fuori di testa. Errori e orrori di politici e comunicatori,…
I fronti aperti di Israele in Medio Oriente
6 Nov 2023
Negli ultimi anni, sotto la guida di Benjamin Netanyahu Israele è stato molto attivo in politica estera e piuttosto…