Almeno otto persone uccise, tra cui un potente signore della droga, e 41 persone arrestate. È questo il bilancio di un blitz effettuato lunedì 23 luglio dalle forze armate libanesi nell’area di Al-Hamudiya-Brital, nella Valle della Bekaa, al confine con la Siria. I militari hanno fatto irruzione nell’abitazione di Ali Zayd Ismail, ricercato in diversi Paesi per traffico di droga. L’uomo sarebbe stato eliminato in uno scontro a fuoco insieme ad altri sette suoi sodali. Nell’operazione sono state catturate altre 41 persone, tra cui 16 libanesi e 25 siriani, e sequestrati ingenti quantitativi di armi e droga.
Da tempo Ali Zayd Ismail era nel mirino dell’esercito libanese che negli ultimi mesi, in due occasioni, aveva provato ad arrestarlo senza però riuscirvi. Nel dicembre del 2017 in uno dei suoi depositi, situati sempre nell’area di Al-Hamudiya-Brital, erano stati sequestrati 800 kg di cannabis, mentre lo scorso aprile in un altro nascondiglio erano stati rinvenuti 20 kg di Captagon, composto di amfetamine stimolanti passato alle cronache giornalistiche come la droga dei miliziani jihadisti.
L’uccisione di Ali Zayd Ismail arriva in un momento in cui in Libano la questione della legalizzazione della cannabis è al centro del dibattito politico. A smuovere le acque, e a spingere il parlamento libanese a valutare l’approvazione di una legge per regolarizzarne l’uso a fini terapeutici, è stato pochi giorni fa un dossier della società di consulenza McKinsey & Co, incaricata di redigere un piano per sostenere la ripresa economica del Paese dei Cedri.
Secondo la McKinsey & Co importanti introiti per rimettere in sesto il disastrato assetto economico-sociale libanese – messo in ginocchio da infrastrutture e servizi fatiscenti, una corruzione endemica e dal continuo arrivo di profughi siriani – potrebbero arrivare proprio dalla messa a norma della produzione e della vendita di marijuana. Una proposta che, qualora dovesse passare ottenendo i voti della maggioranza dei parlamentari libanesi, implicherebbe però per il governo di Beirut la necessità di fare i conti con quanto accade nella Valle della Bekaa, zona franca al confine con la Siria di fatto fuori il controllo delle autorità centrali.
In quest’area già negli anni Ottanta, all’apice della guerra civile in Libano (1975-1990), la produzione di cannabis arrivava a circa 2.000 tonnellate all’anno. Con l’inizio del conflitto siriano, gli affari per coltivatori di cannabis e i trafficanti di droga della Valle sono tornati a crescere. Dal 2012, stando a quanto scritto dal Guardian, la produzione è aumentata del 50% e solo nel 2017, secondo l’UNODC (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine), avrebbe generato tra i 175 milioni e i 200 milioni di dollari all’anno. Un’impennata che ha collocato il Libano al quarto posto a livello globale tra i Paesi esportatori di cannabis, dietro Marocco, Messico e Nigeria. Tra i principali mercati acquirenti Europa, Golfo Persico, Africa e Nord America.
Questi numeri, sommati alla proposta lanciata dalla società McKinsey & Co, hanno spinto diversi esponenti politici libanesi a cavalcare l’onda della legalizzazione. Tra questi ci sono Nabih Berri, relatore di una proposta di legge per la regolarizzazione della produzione e della vendita a scopi medici, e il ministro dell’Economia e del Commercio Raed Khoury, il quale ha recentemente dichiarato a Bloomberg che la qualità della cannabis libanese è tra le «migliori del mondo», aggiungendo che la marijuana legalizzata potrebbe diventare per il Paese un’industria da miliardi di dollari.
Tuttavia, la strada verso la legalizzazione della marijuana in Libano non è priva di ostacoli. Quello più ostico da superare per il governo di Beirut è rappresentato da Hezbollah. L’organizzazione sciita libanese non trarrebbe infatti nessun profitto dal consegnare allo Stato la Valle della Bekaa, area che sfrutta per controllare i traffici di armi e droga tra Libano e Siria e per far confluire in territorio siriano propri miliziani a sostegno della Guardia Rivoluzionaria Iraniana e dell’esercito di Damasco.
Rocco Bellantone
Caporedattore di Babilon, giornalista professionista, classe 1983. Collabora con le riviste Nigrizia e La Nuova Ecologia di Legambiente. Si occupa di Africa, immigrazione e ambiente.
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