Dopo aver preso in esame, nel precedente articolo, i rapporti tra Corea del Nord e Stati Uniti tra il 1949 ed il 2003, con quest’ultimo ci avviciniamo maggiormente ai tempi attuali, partendo dall’azione della Presidenza Bush fino ad arrivare a quella del tycoon.
1. RISULTATI SCARSI (2003-2016)
Dopo qualche timido tentativo di distensione operato durante la presidenza Clinton, i rapporti tra le due nazioni precipitarono nuovamente nel 2003, quando l’Amministrazione Bush fece sospendere i rifornimenti petroliferi pattuiti dall’Agreed Framework, accusando Pyongyang di aver ripetutamente agito in spregio a quest’ultimo; per tutta risposta, Kim Jong-il dispose il ritiro non solo dall’accordo con gli Stati Uniti, ma anche dal Trattato di non proliferazione nucleare, rendendo manifesto ciò che prima era stato a fatica celato, ovvero la presenza di un programma per l’arricchimento dell’uranio. In tutto questo, l’invasione dell’Iraq e l’inserimento della Corea del Nord nel cosiddetto “asse del male”, che includeva, oltre all’Iraq, l’Iran, non fecero che irrigidire le posizioni del leader nordcoreano, sempre più consapevole della necessità di “assicurare” la sopravvivenza del regime attraverso lo sviluppo di un sistema di deterrenza nucleare.
Le contromisure prese dagli Stati Uniti consistettero nell’irrigimento delle sanzioni e delle restrizioni nei confronti del regime nordcoreano, nonché in un rinnovato tentativo di mantenere “praticabile” la via diplomatica. I cosiddetti Six Party Talks (che includevano anche Cina, Corea del Sud, Giappone e Russia) durarono anni, e tuttavia furono assolutamente inconcludenti: nel 2006 venne testato il primo ordigno nucleare, e nel 2008 si mise nuovamente la parola fine al dialogo dopo che i nordcoreani impedirono l’ingresso di ispettori che verificassero lo smantellamento degli impianti.
La situazione continuò a perpetuarsi senza grossi stravolgimenti anche durante la Presidenza di Barack Obama, il quale decise di perseguire la politica della cosiddetta “pazienza strategica”; la pressione contro il regime nordcoreano sarebbe continuata, sia politicamente che economicamente, tuttavia gli Stati Uniti non avrebbero totalmente precluso la strada del negoziato. L’unico risultato di questa tattica è stato, purtroppo, quello di permettere alla Corea del Nord, dal 2011 guidata da Kim Jong-un, di fare ulteriori progressi in termini scientifico-militari, senza mostrarsi nel frattempo benché minimamente interessata a tornare alle trattative.
2. “ROCKET MAN” (2016)
Il regime di Kim Jong-un, almeno fino agli inizi del 2018, si è distinto dai precedenti per il crescente numero di minacce dirette verso gli USA, il Giappone e la Corea del Sud, i ripetuti esperimenti missilistici – nonché nucleari – e le continue sfide lanciate alla comunità internazionale, senza che lo Stato “dei Kim” ricevesse mai una risposta non limitata alle vuote parole di condanna.
Tuttavia, l’avvento di Donald Trump ha cambiato le carte in tavola; già nella campagna elettorale, il futuro Presidente si era lanciato in commenti arditi e proposte giudicate “surreali” dai più, aprendo ad esempio alla possibilità di poter dialogare direttamente con Kim, così da instaurare un proficuo rapporto personale con il dittatore e risolvere diplomaticamente la crisi coreana; l’atteggiamento “accomodante” di Donald Trump gli aveva addirittura fruttato l’endorsement da parte di Kim Jong-un stesso, che attraverso l’apparato stampa del regime aveva invitato i cittadini statunitensi non votare quella “ottusa di Hillary”.
3. TRUMP: UNA NUOVA SPERANZA DI PACE? (2017-2018)
Dopo il 20 gennaio 2017, l’Inauguration Day del tycoon, la realtà si era tuttavia rivelata totalmente differente dalle aspettative. Trump, messo di fronte ad una Corea del Nord ancora più sfrontata e assertiva di prima, arrivata al punto da eseguire il primo test termonucleare nel settembre 2017, si era visto costretto a rafforzare la presenza statunitense in Corea, dove aveva inviato già in aprile un squadra navale, per rassicurare gli alleati e cercare di restituire maggiore credibilità alla politica statunitense nei confronti del regime nordcoreano.
Nel contempo, il Dipartimento di Stato aveva aumentato la pressione politico-economica nei confronti dell’ultimo vero protettore del regime di Kim, ovvero la Cina, mai spintasi oltre il biasimo per condannare l’atteggiamento aggressivo di Pyongyang, senza mai mettere in atto alcuna misura sostanziale – bisogna tenere presente che la Corea del Nord è pressoché totalmente dipendente dai cinesi per quanto riguarda i rifornimenti energetici e l’import-export, nonché ad essa legata da un trattato di cooperazione e mutuo soccorso risalente al 1961.
Questa politica sembra aver avuto un certo successo, in quanto, proprio al culmine della crisi, Kim Jong-un ha iniziato lentamente un processo di apertura e distensione, che è passata attraverso la partecipazione della Corea del Nord ai giochi olimpici invernali in Corea del Sud, all’incontro con il Presidente sudcoreano Moon Jae-in e con quello cinese Xi Jinping, per concludersi il 12 giugno 2018 a Singapore, di fronte a decine di fotografi da tutto il mondo, con la storica stretta di mano con il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump; entrambi si sono ripromessi di fare pace e di procedere alla definitiva denuclearizzazione della penisola coreana. Prospettiva offuscata in parte durante l’estate, quando sono arrivate alcune smentite (sotto forma di un rapporto delle Nazioni Unite) circa la bontà delle intenzioni di Kim; smentite che hanno decisamente raffreddato l’atmosfera di generale ottimismo con la quale sembrava si potesse arrivare rapidamente e facilmente alla pace.
Vincenzo G. Romeo
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