Ieri, 28 ottobre, si è detta la parola fine ad un lungo e dibattuto scontro politico in Brasile. Dall’impeachment di Dilma Rousseff (2016) al ballottaggio di ieri infatti, la sfida per la leadership nel paese sudamericano è stata intensa e ricca di colpi di scena fina al sorprendente, ma anche previsto, 55,20% di voti in favore di Jair Bolsonaro che diviene così il nuovo presidente del Brasile. Finisce quindi ufficialmente l’era del Partito dei Lavoratori e inizia quella del Partito Sociale Liberale segnando un ribaltamento quasi totale della programmazione socio-politica del paese. Haddad, lo sconfitto lulista, ha comunque fatto del suo meglio per recuperare terreno nei confronti del favorito Bolsonaro chiudendo con il 44,80% del favore popolare nel ballottaggio.
Interessante è l’immagine che da queste elezioni ne vien fuori del paese, della regione e infine della corrente politica che sino ad oggi (dal 2002 al 2014 sono stati eletti governi lulisti) ha avuto la leadership nel paese. Innanzi tutto vi è stato uno slittamento pericoloso del paese verso una netta polarizzazione ideologica. Chi ha votato Haddad ha comunque desiderato la continuità dell’impianto socio-politico ed economico voluto dal Partito dei Lavoratori. Parliamo di un approccio che nei propositi ha sempre desiderato appianare le differenze socioeconomiche esistenti nel paese. Da Lula a Rousseff infatti i piani volti all’inclusione delle periferie al nucleo attivo del paese sono stati numerosi, ma con anche gravi dispendi di risorse. Ingenti investimenti sono stati fatti internamente al paese ed anche all’esterno per dinamizzare un paese che ha in vero una necessità cronica di alimentare il proprio desiderio di essere grande in ambito internazionale. Ma la permanenza alla leadership per così tanto tempo ha anche logorato il partito al suo interno finendo con il farsi coinvolgere in numerose vicende di corruzione e clientelismo e se il sistema lulista ha comunque sempre resistito ad ogni insinuazione, lo stesso si è sgretolato quando al centro del ciclone mediatico e giudiziario sono finiti i pilastri del movimento: Dilma Rousseff (impeachment e destituzione dalla presidenza nel 2016 per manipolazione del bilancio statale) e Lula (accusa di riciclaggio di danaro e corruzione). A nulla è valso rilanciare il progetto con la candidatura in corsa di Haddad, troppo tardi per cercare di ripulire l’immagine di un partito che comunque e nonostante tutto decide di ancorare ogni sua strategia propagandistica a quella sbiadita leadership del detenuto Lula. Ma come detto il 44,80% dell’elettorato continua a credere in un progetto che comunque, nonostante le polemiche e le gravi accuse, ha saputo dare negli anni importanti risposte soprattutto a quella parte della popolazione meno inclusa nel Brasile ricco e dinamico del sud. Tuttavia, ciò che realmente sorprende è che il 55,20% abbia deciso di affidare le proprie speranze di rilancio economico e sociale, non ad una corrente centrista o di destra, bensì espressamente devota ad un’ideologia di estrema destra. In poche parole l’asse politico del paese trasla in direzione diametralmente opposta aprendo una voragine immensa nella stessa società. Per certi versi si va a rimarcare quanto avveniva prima dell’insediamento di Lula (2002) ovvero la divisione geografica tra nord e sud del paese con quest’ultimo capace di detenere la leadership economica e politica dell’intero Paese.
Con ogni probabilità sarà la vittoria dell’imprenditoria privata, degli investimenti diretti esteri dove lo Stato vestirà i panni di vigile passivo al traffico finanziario che ne seguirà. Il sistema di Bolsonaro punterà ad un riequilibrio del bilancio pubblico proprio riducendo la presenza dello Stato nell’economia e nell’erogazione di servizi. Sarà dato un taglio netto ai ministeri proprio per il venir meno delle politiche assistenziali così come della gestione diretta di attività economiche. Sul tavolo del nuovo governo avrà la massima priorità la questione Petrobras con una ricollocazione delle quote pubbliche nel privato e via dicendo fino al ripristino di un impianto statale pronto a ricollocare le proprie risorse nel comparto militare e nella sicurezza pubblica. Sul piano internazionale invece la vittoria di Bolsonero conferma e consolida in trend politico che vuole l’archiviazione (almeno per il momento) del socialismo latinoamericano come esperimento per certi versi deludente. Si assiste infatti ad un ripristino della visione neoliberale con l’ultimo e più importante tassello di una regione mutevole: il Brasile. Il paese verdeoro si unisce ai governi eletti di Argentina, Paraguay, Colombia, Ecuador, Cile e Perù in un’ottica di ridefinizione degli equilibri regionali in cui con ogni probabilità gli stessi partenariati in essere verranno abbandonati o ridiscussi (Mercosur, Unasur e Celac su tutti) così come la relazione con Washington e con Caracas. Nel primo caso assisteremo ad una sinergia nuova che riporterà all’ordine del giorno la discussa Dottrina Monroe e il ruolo subordinato dell’America Latina alle strategie statunitensi, nel secondo caso invece siamo alla vigilia di un accerchiamento ideologico nei confronti del Venezuela per il quale non è da escludersi il precipitare della situazione interna sulla base anche di ingerenze esterne più forti e dirette. Ma il cambio storico in Brasile farà sentire i suoi effetti sin nel Mar Caraibico dove lo stesso paese aveva in essere ingenti investimenti nel Porto di Mariel a Cuba. Facile prevedere una ridefinizione (se non annullamento) degli accordi per l’implementazione del porto commerciale cubano con L’Avana che tornerebbe così ad una precarietà economica e ad un isolazionismo ideologico che nulla potrebbe nei confronti delle ambizioni di Tramp.
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