Entra nel vivo la Conferenza di Palermo sulla Libia. Nella giornata di oggi, martedì 13 novembre, si è alla fine tenuto l’atteso incontro tra il premier italiano Giuseppe Conte, il premier del Governo di Accordo Nazionale di Tripoli Fayez Al Serraj e il Generale della Cirenairca Khalifa Haftar. All’incontro hanno partecipato anche il premier russo Dmitri Medvedev, il presidente dell’Egitto Al Sisi, il presidente della Tunisia Essebsi, il presidente del Consiglio dell’UE Donald Tusk, il ministro degli Esteri francese Le Drian, il premier algerino Ouyahia e l’inviato Onu per la Libia Salamè.

In attesa di capire se e quali risultati produrrà questo atteso summit, accompagnato negli ultimi giorni da molte perplessità, Oltrfrontiera News anticipa un passaggio di un’interessante analisi di Ciro Sbailò, professore ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università degli Studi internazionali di Roma – UNINT, che verrà pubblicata sul Federalismi.it, Rivista di Diritto pubblico italiano, comparato, europeo.   

 

Per cercare la quadratura del cerchio, si deve procedere per esclusione. La suddivisione in due aree, una facente capo a Tripoli e l’altra a Tobruk, basata anche sulla sostanziale equa ripartizione delle risorse petrolifere, sembra doversi escludere per varie ragioni. In primo luogo, una tale soluzione presuppone un controllo militare congiunto dell’area centrale, attualmente dominata tra turbolenze criminali e jihadiste di varia natura (…) Ma l’accordo militare vedrebbe l’Est in una condizione di forza spropositata rispetto all’Ovest, tale da favorire tendenze di natura egemonica. Inoltre, la separazione tra Est e Ovest finirebbe molto probabilmente per favorire l’affermazione dei movimenti islamistici a Tripoli, il che potrebbe innescare una invasione militare dall’Est, per ovvie ragioni di stabilizzazione dell’area. Infine, bisogna tenere presente il problema del Fezzan, che non potrebbe essere lasciato in autonomia, vista la sua delicata posizione di “porta” dell’Africa nera verso la Libia, ma la cui popolazione è storicamente ostile alla propria suddivisione tra Tripolitania e Cirenaica.

La soluzione neoparlamentare, che è quella attualmente in auge, sembra doversi decisamente escludere, per due ragioni, combinate tra loro. La prima è che in un contesto come quello libico, una gestione collegiale della sicurezza e della politica militare, comunque soggetta alla negoziazione tra le varie componenti della società libica, è impensabile, per ragioni che qui ormai ci pare inutile ricordare. La seconda è che, con il sostegno di una parte significativa dell’opinione pubblica libica e della stessa popolazione tripolitana, il generale Haftar sostiene la necessità di una centralizzazione del comando militare. Né sembra auspicabile la soluzione, pur da varie parti prospettata, di un governo neoparlamentare, con un ministro della difesa dotato di speciali poteri e affidato a una personalità di spicco, sostenuta dal governo egiziano (in pratica, lo stesso Haftar). Il sistema finirebbe per gravitare inevitabilmente sul ministro della difesa, senza la presenza di efficaci contrappesi, il che, secondo un’esperienza comune nell’area, aprirebbe la strada a un colpo di Stato.

È stata, dunque, avanzata l’ipotesi, nella farraginosa e contraddittoria fase costituente libica, di una soluzione semipresidenziale. Nell’esperienza nordafricana, il semipresidenzialismo, però, a differenza di quanto accaduto in Francia, non ha rappresentato una forma estrema di razionalizzazione della forma di governo parlamentare, bensì una copertura in chiave pseudo-parlamentare del presidenzialismo autoritario (Algeria, Tunisia, Egitto).

Questa tradizione, tuttavia, s’è interrotta in Tunisia, dopo la Primavera araba. Nella Costituzione tunisina del 2014, si delinea una forma di governo parlamentare altamente razionalizzata, attraverso l’elezione diretta del Presidente della Repubblica (cosiddetto “semipresidenzialismo”). In questo senso, si può ben parlare di “svolta” nella Costituzione tunisina. In base all’articolo 94, «il governo è responsabile di fronte alla Camera dei Deputati» (il Parlamento, da bicamerale qual era diventato nel 2002, ridiventa monocamerale). Malgrado, dunque, la qualificazione del sistema, contenuta nel Preambolo, quale «repubblicano democratico partecipativo», siamo di fronte a una classica democrazia rappresentativa. Il bicefalismo dell’Esecutivo risulta costruito in modo tale da garantire il massimo dell’autorevolezza al Capo dello Stato e il massimo del potere politico al Capo del Governo, con un ruolo di “contropotere” del Parlamento. Il presidente della Repubblica, infatti, viene eletto a suffragio universale diretto, col sistema del ballottaggio tra i primi due arrivati al primo turno e, caso che nessuno raggiunga la maggioranza assoluta, con un mandato di cinque anni rinnovabile una sola volta. Ma se si fa eccezione per la politica estera, la difesa nazionale e la sicurezza, il Presidente non sembra il vero artefice della politica pubblica nazionale. Questa figura sembra, piuttosto, essere incarnata dal capo del governo, il quale viene nominato dal Capo dello Stato sulla base dei risultati elettorali.

Di fatto, si tratta di un vero bicefalismo dell’Esecutivo, studiato per favorire la collaborazione o il compromesso tra le varie anime della società tunisina: l’islam popolare, i partiti laici e i sindacati.

Ed è forse proprio a un vero bicefalismo dell’Esecutivo che si dovrebbe puntare per la Libia. Si tratta di trovare una comune piattaforma tra i vari protagonisti del game libico, garantendo un ruolo di primo piano all’élite militare filoegiziana sul fronte della sicurezza e della politica estera e un adeguato spazio alle altre molte anime della società libica, dall’Islam popolare ad alcuni elementi dell’ex regime gheddafiano, così come ai partiti e movimenti di ispirazione democratica, un ruolo di primo piano negli affari sociali ed economici. Insomma, si tratterebbe di un vero compromesso costituzionale, sul modello tunisino, con un contributo determinante e condiviso di Francia e Italia: un presidente eletto a suffragio universale, probabilmente di religione islamica e natali libici, con forti poteri in materia di politica estera e di difesa; un governo forte, in materie economiche e sociali, formatosi sulla base dei risultati elettorali politici, e legato a doppio filo alla rappresentanza parlamentare. Il pregio di una tale soluzione rispetto a quella neoparlamentare con poteri speciali del ministro della Difesa sarebbe nella sua chiarezza: i ruoli e i campi di azione sarebbero ben delineati, fin dal principio, anche con la garanzia dei due attori europei di riferimento, la Francia e l’Italia. Il che ridurrebbe al minimo le ambiguità politiche e le opacità istituzionali in cui, secondo l’esperienza storica dell’area MENA, si sviluppano i colpi di Stato.

Si tratta solo di un’ipotesi, ovviamente, formulata in prossimità di un importante meeting internazionale sulla Libia, in agenda proprio nelle ore in cui questa rivista esce on line. Ci pare doveroso esporci nel proporla, data la gravità della situazione libica e l’urgenza di una stabilizzazione dell’area.