Le attesissime elezioni parlamentari nella Regione Autonoma del Kurdistan iracheno si sono tenute il 30 settembre scorso tra speranze, tensioni e accuse di brogli, a distanza di un anno dal fallito tentativo di indipendenza.
1. LE FORZE IN CAMPO
Il 30 settembre scorso le elezioni parlamentari nella Regione Autonoma del Kurdistan hanno chiamato alle urne il popolo curdo a distanza di un anno dal referendum che il 25 settembre del 2017 lo ha visto esprimersi a favore dell’indipendenza da Baghdad. La delusione per le speranze indipendentiste disattese e l’isolamento al quale il Kurdistan era stato condannato dopo il voto avevano immediatamente infiammato le piazze, che nei mesi successivi hanno rivendicato il ritorno alle urne per l’elezione di un nuovo Parlamento. Un anno dopo, in un clima di grande tensione con le dimissioni a maggio del presidente Barzani e le elezioni federali irachene, oltre 700 candidati hanno finalmente gareggiato per i 111 seggi del Parlamento regionale curdo, in una tornata di grandissima importanza. Da un lato c’era la coalizione KDP e PUK, dal 2013 insieme al Governo, ma in realtà unita in un’alleanza tutt’altro che solida, che li ha visti contrapposti per la presidenza federale irachena. Dall’altro un’opposizione frammentata, composta da partiti eterogenei di diverso orientamento politico: la coalizione “Sardam” (Partito curdo dei lavoratori e degli operai, Partito socialista democratico curdo e Unione nazionale democratica del Kurdistan), la lista “Verso il cambiamento” (Unione islamica curda e Movimento islamico curdo), il Gruppo islamico curdo rimasto isolato, i partiti anti-sistemici Gorran, fortemente indebolito dalla perdita di credibilità dei suoi leader, e Neway Nwe, “Nuova Generazione”.
Fig. 1 – Un elettore presso un seggio elettorale a Sulaymaniyah
2. I RISULTATI
Il voto di settembre si è svolto in un clima di grande tensione, che ha accompagnato anche l’attesa dei risultati. Alle urne si è presentato il 57,8% degli aventi diritto, con un elevatissimo tasso di astensionismo, espressione della disillusione popolare nei confronti della classe politica dirigente e delle reali possibilità di cambiamento del Paese. Il risultato, già previsto alla vigilia del voto, è stato ancora una volta una riconferma del duopolio KDP-PUK: il KDP di Barzani ha ottenuto infatti il 38,34% delle preferenze e conquistato 45 seggi in Parlamento, mentre il PUK si è attestato al 24,8%, ricevendo 21 seggi. A seguire il Gorran, in netto calo rispetto alle precedenti elezioni del 2013, che ha raggiunto il 12% dei consensi e raccolto 112 seggi parlamentari. Ancor prima comunque dell’annuncio ufficiale dei risultati elettorali, da più parti denunce di brogli hanno contestato la validità delle elezioni. All’indomani del voto, il Gorran ha dichiarato di non voler accettare l’esito, citando le oltre mille denunce di irregolarità.
Fig. 2 – Masoud Barzani presso un seggio elettorale a Erbil
3. LE SFIDE DEL FUTURO
Quella dello scorso settembre è stata una tornata elettorale di grandissima importanza. Le forze vincitrici incaricate di formare il nuovo Governo si ritrovano a dover affrontare una profonda crisi interna e un delicatissimo contesto regionale. A partire dal 2014 la regione è sprofondata in una grave crisi economica che ha progressivamente provocato il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione, l’innalzamento del tasso di disoccupazione giovanile, la ciclica insolvenza dello Stato nel pagamento degli stipendi pubblici e la paralisi dei servizi, soprattutto sanitari. Il diffuso sistema clientelare e la dilagante corruzione di una classe dirigente comandata dai clan ha ulteriormente aggravato un immobilismo che non aiuta ad affrontare le delicate sfide regionali e l’isolamento internazionale cui la regione è stata condannata dopo il referendum dello scorso anno. Rassegnata alla “One Iraq Policy”, con Baghdad rimangono da risolvere nodi come il controllo delle aree interne disputate, la gestione delle risorse petrolifere e delle forze armate. L’elevato tasso di astensionismo ha evidenziato disillusione nelle reali possibilità di cambiamento, una disillusione confermata dal risultato elettorale che conserva il potere nelle mandi della stessa classe dirigente finora al Governo. Un cambiamento è possibile?
Maria Di Martino
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