Alla fine dell’aprile 2018 il XIV Rapporto sulle condizioni di detenzione, a cura dell’Associazione Antigone, indicava che «i potenziali terroristi islamici detenuti nelle carceri italiane sono aumentati del 72 per cento nel 2017 rispetto all’anno precedente». Al 31 dicembre ne risultavano 506, contro i 365 del 2016. Inoltre, spiegava il Rapporto, «è cresciuto anche il loro grado di pericolosità: 242 sono classificati al più alto livello di rischio (il 32% in più del 2016), 150 sono ritenuti a un livello medio (il 100% in più del 2016), 114 quelli a basso pericolo (nel 2016 erano 126)».
Tra le persone che rientrano nel livello alto, 180 sono in carcere per reati comuni e 62 perché sospettati o condannati per reati connessi al terrorismo islamico. «I 62 detenuti sono in regime di alta sicurezza e si trovano principalmente nelle carceri di Sassari (26), Rossano (19) e Nuoro (11), dove è stata creata anche una sezione femminile (con 4 detenute)».
La condizione dei detenuti di fede musulmana nelle carceri italiane
Tra i dati più significativi segnalati nel Rapporto c’è quello che indica che i detenuti che si dichiarano di fede musulmana sono 7.194, circa il 12% del totale di 58.223 detenuti censiti al 31 marzo 2018.
Ogni anno, per la ricorrenza del Ramadan, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) impartisce specifiche disposizioni che consentono ai detenuti islamici di celebrare la ricorrenza nel rispetto delle norme di sicurezza. Ove possibile, le direzioni degli istituti mettono a disposizione sale destinate alla preghiera. Il 5 novembre 2015 è stato siglato un Protocollo d’Intesa tra il DAP e l’UCOII (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia). Il Protocollo però non ha carattere di esclusività nell’ambito dei rapporti con i ministri del culto islamico. Vi sono, infatti, imam autorizzati dal ministero dell’Interno che non aderiscono all’UCOII.
Il Rapporto dell’Associazione Antigone indica che sono autorizzati a entrare nelle carceri italiane 25 imam, a cui si sommano 41 assistenti volontari. Da alcune fonti è comunque trapelato che le autorità penitenziarie vorrebbero molti più imam nelle carceri, convinte che questi predicando un “islam moderato” potrebbero redimere potenziali estremisti islamici.
L’attentato di Strasburgo, un segnale d’allarme per l’Italia
Proprio in questi giorni l’Europa e l’Italia hanno pianto per una nuova strage commessa a Strasburgo da un terrorista musulmano che al grido di «Allah akbar» ha ucciso quattro persone, ferendone 12 e allungando così la lista degli italiani morti in giro per il mondo vittime del terrorismo di matrice salafita. Il giovane giornalista ucciso a Strasburgo, Antonio Megalizzi, è infatti il 44esimo cittadino italiano vittima della furia islamica dal 2003. Prima di lui, altri nostri connazionali innocenti erano caduti a Parigi, Tunisi, Nizza, Melbourne, Dacca, Barcellona, Berlino, Londra e in Egitto.
Ogni analista culturalmente onesto non può concordare con il messaggio che si è cercato di far passare nei giorni successivi all’attentato di Strasburgo, e cioè che il povero Antonio Megalizzi è stato ucciso con un colpo alla testa «da un nemico dell’Europa». Antonio Megalizzi è stato ucciso con modalità terroristiche dall’ennesimo “lupo solitario”, seppur schedato e conosciuto per il suo estremismo, che si era radicalizzato nelle carceri in cui era stato rinchiuso a più riprese in quanto pluri-delinquente abituale.
Alla luce di quanto accaduto a Strasburgo, si può ora facilmente concludere che le carceri di tutta Europa possano diventare – o siano già diventate – un centro di formazione di estremisti islamici, i quali, una volta arrestati e portati in prigione per reati comuni, si radicalizzano e diventano potenziali terroristi. La tesi sembrerebbe essere sostenuta da parte delle autorità penitenziarie italiane – evidentemente non sempre in linea con i vertici delle forze dell’ordine – e, pare, anche da parte di alcune correnti della magistratura. Ma la teoria che gli imam dell’UCOII, e non, possano evitare la radicalizzazione in carcere dei potenziali terroristi islamici appare una vera utopia. D’altronde, ci vuole un grosso sforzo di fiducia per credere che chi entra in carcere abbia la capacità di indicare quali siano i principi fondanti al vero “islam moderato” a chi non ha fatto della moderazione la ragione per integrarsi nelle società occidentali in cui si è trasferito a vivere.
Le categorie di detenuti e i livelli di allerta
Rimane comunque assolutamente positivo il fatto che il DAP ha definito tre categorie di detenuti a rischio e altrettanti livelli di allerta. La prima categoria comprende chi è in carcere per reati connessi al terrorismo di matrice islamica, senza distinzioni tra condannati, sospettati e imputati; la seconda comprende i detenuti per reati comuni che “condividono un’ideologia estremista e sono carismatici”; la terza comprende i detenuti comuni giudicati “facilmente influenzabili”, i cosiddetti “followers”. Queste tre categorie rientrano in ordine sparso in tre livelli di allerta. Il terzo e meno alto è riservato ai “followers”, il secondo a coloro i quali durante la detenzione hanno mostrato “atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza all’ideologia jihadista” e il primo, detto “alto”, a due tipi di detenuti: i condannati, sospettati e imputati per reati connessi al terrorismo islamico, e i detenuti comuni che hanno “posto in essere atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione e/o reclutamento”, dunque meritevoli di un’attenzione particolare.
L’Associazione Antigone indica che «secondo la categoria di appartenenza si ha un trattamento penitenziario diverso». I detenuti per terrorismo islamico sono soggetti a un regime detentivo speciale e restrittivo, l’Alta Sicurezza (AS). Si tratta di un regime basato su circolari dell’amministrazione penitenziaria e non su leggi, e pertanto soggetto a forte discrezionalità. In uno dei sotto-circuiti che lo compongono, l’AS2, si trovano i 62 detenuti per reati commessi con finalità di terrorismo di matrice islamica.
Le conseguenze del disimpegno USA in Siria
Tornando a questi giorni si deve evidenziare, quindi, che i potenziali terroristi islamici detenuti nelle carceri sono aumentati del 72% in un anno. È doveroso anche aggiungere che a causa della mutata situazione strategica in Iraq e Siria – Paese quest’ultimo in cui si sta materializzando un graduale disimpegno degli USA – molti terroristi dell’ISIS stanno cercando – o cercheranno e probabilmente riusciranno – di tornare in Europa. Ci sono quasi 4mila terroristi nelle prigioni controllate da curdi e siriani regolari che potrebbero “beneficiare” del disimpegno americano. In tal senso non va dimenticato che i miliziani curdi nel nord della Siria – membri delle Unità curde di Protezione del Popolo (YPG), braccio armato dei curdi-siriani inquadrato nell’alleanza delle Forze Democratiche Siriane – hanno catturato un jihadista dell’ISIS, Semir Bogana, che hanno identificato come un mercenario italiano che stava cercando di superare il confine con la Turchia, Paese divenuto un rifugio per questa tipologia di terroristi.
Quando altri foreign fighters come Bogana torneranno in Europa, saranno considerati “eroi di guerra” dagli islamici radicalizzati più giovani. Se questi “irriducibili” del terrore finiranno – come si spera – in carcere, cercheranno di reclutare e indottrinare altri “soldati” pronti ad agire come l’assassino di Strasburgo.
Una proposta per rendere più sicure le carceri italiane
Per chi rientra nella categoria dei potenziali assassini o istigatori alla lotta armata jihadista, i diritti e le garanzie in questo momento in essere in Italia sono un “lusso” di non più accettabile. In quest’ottica, non è del tutto illogico pensare a una condizione carceraria da “41 bis” per i potenziali terroristi islamici. Infatti, i reati che prevedevano tale regime carcerario erano, nella formulazione originale, anche quelli commessi per finalità di terrorismo o di eversione. Secondo molti il legislatore aveva scelto consapevolmente di utilizzare strumentalmente la natura di alcuni reati per escludere definitivamente certe categorie di detenuti dal godimento dei benefici, abbandonando così nei loro confronti l’idea del trattamento individualizzato e della rieducazione, in deroga al principio costituzionale di eguaglianza di tutti i condannati nella fase dell’esecuzione della pena. In altri termini, il regime detentivo da adottare dovrebbe impedire loro di mantenere i contatti all’esterno.
Concludendo, la tragedia di Strasburgo deve essere l’elemento di partenza per un’iniziativa legislativa che metta la magistratura in grado di agire da subito. Se si accetta che tale indirizzo restrittivo ha funzionato con i più sanguinari e spietati capi mafiosi, si deve avere il coraggio di utilizzarlo in modo più ampio a difesa della nostra società. È un atto dovuto ai familiari degli italiani che sono stati vittime in questi anni del terrorismo di matrice jihadista.
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