Il 10 gennaio è la data ufficiale d’inizio del nuovo mandato presidenziale di Nicolas Maduro in Venezuela. Una presidenza che in realtà non trova legittimità in ambito regionale e internazionale con la gran parte dei paesi ostici e inclini a non riconoscere questa presidenza. Se Europa e Stati Uniti proseguono nell’ammonire Caracas mediante sanzioni economiche, i paesi della regione avevano già espresso la propria volontà di non riconoscere il risultato elettorale che sarebbe scaturito dal voto del 20 maggio. Una dichiarazione avvenuta in seno all’OSA ancor prima di conoscere il reale esito del voto perché non si riscontravano le oggettive condizioni perché le elezioni presidenziali venezuelane potessero rispettare parametri di democraticità. E proprio in previsione di tale critica situazione, l’8 agosto 2017 veniva fondato il Gruppo di Lima ovvero un gruppo di lavoro che coinvolge ben 14 paesi della regione e i relativi ministri degli esteri, per il monitoraggio della crisi venezuelana. E proprio il 4 gennaio scorso lo stesso Gruppo, costituito da Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Guyana, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù e Santa Lucia ha emanato una dichiarazione per la quale si ribadisce in modo ufficiale come non sia riconosciuto il nuovo governo venezuelano. Nel documento si esorta lo stesso Maduro a rimettere il proprio mandato all’Assemblea Nazionale fino a nuove elezioni. Il Gruppo di Lima vede però anche l’astensione dalla ratifica della dichiarazione da parte del Messico di Obrador. Il paese centroamericano ha voluto sottolineare la propria attitudine di non ingerenza nelle situazioni interne di altri paesi, auspicando che venga dato spazio al dialogo. Stessa posizione è stata assunta dall’Uruguay, mentre pieno riconoscimento al nuovo governo venezuelano viene espresso da Bolivia, Cuba e Russia.
Su tale situazione tuttavia vanno presi in considerazione due fattori ovvero la situazione venezuelana in se e il contesto regionale in cui questa controversia si va ad inserire. Per quanto riguarda le elezioni vinte da Maduro il 20 maggio scorso con il 67,84%, queste avevano luogo in un clima abbastanza teso in cui i principali partiti d’opposizione hanno boicottato il voto, astenendosi da una partecipazione. L’accusa mossa nei confronti del governo chavista era quella di non permettere alle opposizioni di concorrere alle elezioni in modo regolare e allo stesso tempo di non garantire un regolare svolgimento del voto. Protesta che ovviamente non riguarda il semplice voto del 20 maggio ma che parte da lontano ovvero dagli scontri di piazza del 2014 aggravati dall’incalzante crisi economica (sancita dal crollo del prezzo del petrolio sul mercato internazionale) e che poi si sono aggravati con il voto per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale (fine 2015). Con l’elezione dei nuovi membri dell’organo legislativo del paese si è palesata una situazione di stallo istituzionale con il chavismo al governo e l’opposizione saldamente al controllo dell’Assemblea Nazionale. Un’impasse risolta da Maduro con la sostituzione dell’Assemblea Nazionale con un altro organismo, l’Assemblea Costituente capace di rispondere alle esigenze legislative del paese in un’ottica di convergenza ideologica con il governo (2017). Condizione che ha spinto sempre di più l’opposizione chavista a cercare con successo legittimità internazionale: Stati Uniti, Argentina, Brasile, Paraguay e poi gli organismi internazionali come Mercosur, OSA, Unione Europea e ultimo il Gruppo di Lima. Un’illegittimità governativa che si era tentato di dimostrare mediante la raccolta di firme per indire un referendum di sfiducia nei confronti di Maduro (referendum poi non ammesso per il riscontro presunto di brogli nella raccolta delle firme) e che poi si è voluta sottolineare proprio con l’esito elettorale del 2018. Voto che per l’opposizione non è altro che l’espressione distorta di un 30% degli aventi diritto al voto e non più, mentre per il governo il flusso alle urne si è attestato al 46,07% degli aventi diritto. Una vera e propria guerra politica dunque che non si risparmia da risvolti violenti di piazza. Ma se sin qui possono essere sottolineati molti errori del governo chavista che non fanno altro che acuire le divergenze, occorre anche guardare con attenzione al contesto internazionale in cui tutto ciò accade.
Proprio dal 2015 in poi si è avviato uno slittamento politico dell’intera regione dalla pressoché unanimità ideologica socialistica, ad un ripristino di governi neoliberisti nei paesi più rappresentativi. Se dal 2012 il Paraguay sembrava una mosca bianca in un continente socialista, pian piano a questo si sono sommati i governi di Argentina (2015), Brasile (2016), Ecuador e Cile (2017) andando a delineare un quadro regionale poco incline a sostenere le ragioni di Maduro in Venezuela. I nuovi governi neoliberisti hanno espresso sin da subito a propria inimicizia nei confronti del governo socialista venezuelano senza minimamente cercare un dialogo facendo ben capire che tale antagonismo ha una mera connotazione ideologica e non derivante da interazioni concrete tra mandatari. Maduro paga ovviamente la forte amicizia con chi precedeva i nuovi mandatari latinoamericani: Lula, Cristina Kirchner, Correa non sono sicuramente figure politiche amate da chi oggi è stato scelto per intraprendere un nuovo corso e inoltre la dialettica antistatunitense di Caracas non appare propriamente in linea con questo nuovo corso che a Washington guarda non come un nemico ma come un’opportunità.
Questo dunque è lo scenario nazionale e internazionale che anticipa l’insediamento del nuovo governo di Maduro il prossimo 10 gennaio e con ogni probabilità è lo stesso scenario che ne seguirà. Anzi potrebbe verificarsi un ulteriore degeneramento del confronto tra chavismo e opposizione e tra Venezuela chavista e resto della regione proprio per la crescente mancanza di legittimità internazionale che contraddistingue la presidenza di Nicolas Maduro. Un tale contesto non fa che aumentare le pressioni sulla compagine chavista alla leadership portandola a commettere errori diplomatici, politici e di programmazione e allo stesso tempo, ancor peggio, finisce con il legittimare l’opposizione nel prendere iniziative sempre meno legali e sempre più pericolose per il fine ultimo di destituire il presidente venezuelano e il suo entourage.
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