L’Italia sembra essere sempre più in difficoltà in Libia, tra i voltafaccia americani e le minacce di Haftar contro il nostro contingente a Misurata. A questo punto sbagliare mossa non è più consentito. Qual è lo scenario nel Paese e come uscire dalla “morsa libica”?
Partiamo dai fatti oramai noti. Nell’ultimo mese il generale Khalifa Haftar, alla testa del “suo” Esercito nazionale libico, è dilagato nel Paese con una sorta di “manovra a tenaglia” dall’est fino alla periferia meridionale della capitale, passando per il sud, dove è riuscito a stringere accordi con alcune tribù locali. L’avanzata, finanziata dai suoi alleati regionali, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, ha posto fine a quella labile convivenza che aveva cristallizzato gli equilibri interni per più di due anni, riassumibile, con un po’ di approssimazione, nella “spartizione” tra Fayez al-Serraj, il leader onusiano appoggiato in maniera strumentale da alcune milizie nell’ovest, e Haftar nell’est. Ma, evidentemente, la Cirenaica iniziava ad andare troppo stretta al generale, che da tempo nutriva ambizioni ben più “allargate” e, su consiglio dei suoi sponsor regionali, ha tentato la mossa definitiva con l’obiettivo di far capitolare Tripoli per accedere alle riserve dell’ovest. Qui, infatti, ha sede la Banca centrale e qui sono depositate la maggior parte delle risorse economiche dell’ex Jamahiriya. Detta in altri termini avere il controllo dell’80% circa del Paese ma non avere accesso al suo capitale rende Haftar ancora un re senza corona.
Le ambizioni dell’uomo che in 48 ore pensava di conquistare Tripoli si sono però scontrate con la resistenza delle forze di Misurata con cui, forse, il generale credeva di poter scendere a patti. Ipotesi decisamente ottimistica se pensiamo che i misuratini, oltre ad aver già dato prova della loro capacità militare durante la guerra contro lo Stato islamico a Sirte nel 2016, possono contare sull’appoggio di Turchia e Qatar e difficilmente saranno disposti a regalare ad Haftar l’autorità conquistata a fatica negli ultimi anni. Da qui è facile intuire le motivazioni della loro alleanza strumentale con Serraj. Il generale, dunque, al momento, sembra essersi arenato “sulla via di Misurata”: fermarsi ora vorrebbe dire perdere tutto ma andare avanti appare molto più difficoltoso del previsto.
Tuttavia la storia recente della Libia ci insegna che le cose possono cambiare rapidamente. Se, infatti, all’inizio tutto sembrava preludere a una sorta di guerra per procura tra potenze regionali, ed in particolare del Golfo, ora gli attori internazionali, inizialmente colti di sorpresa, stanno cercando di riposizionarsi nel nuovo scenario interno per mantenere – e se possibile ampliare – la propria sfera di influenza. Gli Usa, da tempo defilati dal teatro libico, sono rientrati in partita. Trump, per non perdere i fiorenti affari con l’alleato saudita e per non lasciare campo libero al Cremlino, ha dato il suo endorsement ad Haftar, ufficialmente assurto al rango di “cavallo vincente”. Putin gioca ancora a bordo campo, forte, da un lato, della storica vicinanza con il generale ma, dall’altro, parzialmente limitato dagli interessi in ballo con la Turchia, alleata dei suoi avversari. Putin non si espone, non condanna Haftar ma dialoga anche con i suoi competitors. Detta in altri termini vorrebbe fare quel salto di qualità che gli permetterebbe di passare dal ruolo di parte in causa a quello di player diplomatico indispensabile.
In questo scenario sempre più intricato, quali carte potrebbe ancora giocare l’Italia? Innanzitutto va precisato che il sostegno fin qui conferito a Serraj non è stato motivato da “spirito masochista” ma dalla necessità di tutelare i nostri interessi che, a scanso di equivoci, sono a Tripoli e dintorni. Da qui partivano (e potrebbero ripartire) i migranti diretti verso l’Italia e qui c’è la più parte degli interessi dell’Eni. L’errore è stato quello di arroccarci su queste posizioni e non intessere un dialogo costante con Haftar, lasciando campo libero a molti altri attori, tra cui i francesi. Ma quel che è fatto è fatto ed è bene guardare avanti.
Abbandonare Serraj per seguire l’imprevedibile alleato americano che ci ha sempre relegati al ruolo di gregari sarebbe l’errore che ci potrebbe costare la Libia. Sfruttare la nostra posizione privilegiata a Tripoli – anche grazie alla recente riapertura della nostra ambasciata – e il nostro contatto con Misurata, in cui abbiamo un ospedale da campo che deve essere mantenuto nonostante le minacce del generale, potrebbe essere la nostra salvezza. Solo valorizzando questo capitale (che è l’unico che abbiamo) possiamo presentarci al tavolo delle trattative per cercare di “agganciare” Haftar. Per farlo dovremmo passare attraverso i suoi alleati senza farci abbindolare dalle promesse di inutili “cabine di regia” ma guardando a chi questo capitale potrebbe fare davvero comodo. I russi, si è detto, aspirano al ruolo di attore diplomatico e il dialogo con Tripoli e Misurata pare essere il loro tassello mancante, o quantomeno il loro punto debole. Perché non partire da qui?
Michela Mercuri
Docente del Corso in Terrorismo e le sue mutazioni geopolitiche alla SIOI, insegna Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano e Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata
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