Le mani sul pulsante, il consiglio di guerra riunito, i generali che sudano freddo, la tensione che sale alle stelle. Poi, come in una sceneggiatura da blockbuster, arriva lo stop. «Nessuno spari» è l’ordine tassativo del presidente, a dieci minuti da uno strike che avrebbe potuto innescare una guerra tra gli Stati Uniti e l’Iran. È quanto accaduto la scorsa notte a Washington DC, dove il Pentagono stava preparando una risposta adeguata all’abbattimento da parte di Teheran di un drone americano che volava sopra acque internazionali nel Golfo Persico, in prossimità della costa iraniana, nella notte di lunedì 17 giugno (ovviamente, l’esatta ubicazione del drone quando è stato abbattuto rimane contestata).
È stato lo stesso comandante in capo, Donald Trump, a renderlo noto: «Ho chiesto quanti sarebbero morti: “150 persone”, mi ha risposto un generale. Così ho fermato l’attacco». La rappresaglia statunitense avrebbe dovuto colpire, all’alba di giovedì 20 giugno, tre obiettivi concordati, tra cui un sistema radar e alcune batterie missilistiche iraniane dalle quali sarebbe partito il colpo che ha distrutto il drone-spia. «Gli aerei erano in aria e le navi in posizione, ma nessun missile è stato sparato quando si è giunti alla fine» ha riferito il New York Times, citando un anonimo alto funzionario dell’Amministrazione presente nella cabina di regia per l’attacco.
Anche se questo episodio non si può definire una novella “crisi dei missili di Cuba”, di certo l’aver sfiorato il confronto diretto tra USA e Iran, è un segnale poco rassicurante. Specie se messo in relazione al progressivo aumento di truppe e navi americane intorno allo Stretto di Hormuz e alle esercitazioni di massa in corso in California, dove il Marine Aircraft Group 16 ha simulato un decollo di massa, facendo decollare contemporaneamente 43 velivoli in una sola volta: l’esercitazione, denominata “Passeggiata degli elefanti”, voleva dimostrare la forza militare degli Stati Uniti e la loro capacità nel poter agire in pochissimo tempo con un così grande gran numero di aerei ed elicotteri.
Come ha ben notato l’analista Jonathan Marcus sulla BBC, «La sola suggestione che il presidente Trump abbia ordinato – e poi interrotto – un attacco all’Iran, manda un forte messaggio a Teheran». Ma come sarà stato letto questo messaggio dalle Guardie Rivoluzionarie iraniane? È noto sin dal 2017 che la presidenza Trump abbia messo tra i propri obiettivi geopolitici un programma di graduale disimpegno dal Medio Oriente, incardinato però sulla sicurezza e sulla difesa a ogni costo dell’alleato storico Israele e dell’altro alleato commerciale Arabia Saudita. I quali a loro volta restano i più acerrimi nemici di Teheran, diffidando dell’accordo di Ginevra siglato al tempo di Obama, che ha stabilito un programma di denuclearizzazione iraniano, la minaccia più grave secondo Gerusalemme e Riad.
In seguito alla decisione di Trump di cancellare quell’accordo e di innalzare le sanzioni economiche contro l’Iran, Teheran ha risposto con i fatti: prima asserendo che inizierà nuovamente l’arricchimento dell’uranio – condizione indispensabile per produrre la bomba atomica e avere una leva in più di minaccia e di deterrenza (vedi Corea del Nord) – con scadenza la fine di giugno 2019; poi passando all’azione, con l’abbattimento di un aereo senza pilota come monito. Questo ha alzato di molto l’asticella dello scontro, ormai non più esclusivamente verbale, tra la superpotenza americana e il regime degli Ayatollah.
Dove porterà tutto questo? Verso «una catastrofe dalle conseguenze imprevedibili», come teme il presidente russo Vladimir Putin? O piuttosto verso un lento rientrare della crisi, secondo l’insegnamento che il presidente americano da sempre sbandiera grazie a quell’arte del compromesso, che già ha portato la Corea del Nord a più miti consigli?
Di certo, Teheran è sotto pressione come mai prima d’ora. E l’escalation tra i due Paesi rimane un pericolo immanente. In fondo, questo episodio dimostra che molto, anche se non tutto, è direttamente nelle mani di due uomini, Donald Trump e la Guida Suprema Ali Khamenei. Che tutto sembrano tranne che guerrafondai.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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