Il fisico è esile, a differenza di quelli della maggior parte dei suoi miliziani. La voce è roca e il volto è magro, con la barba incolta e le guance scavate, probabilmente per le fatiche dei continui combattimenti a cui ha preso parte nelle ultime settimane. Tra le mani impugna un bicchiere di whisky ed un rosario, che sgrana mentre parla. Seduto al centro della stanza, sulla parete dietro di lui campeggiano quattro poster raffiguranti Bashar al Assad, Valdimir Putin, il patriarca russo-ortodosso Kirill e la Madonna. Intorno a lui siedono in semicerchio i miliziani: taglio di capelli militare, magliette borghesi, pantaloni mimetici, anfibi. Alcuni hanno un kalashnikov, sul quale spesso si appoggiano per mettersi comodi. Le mani e gli avambracci di molti di loro sono tatuati con croci e altri simboli cristiani. Lui, invece, di tatuaggi non ne mostra. Si chiama Nabil Alabdalla ed è il condottiero della National Defence Force, la locale milizia cristiana affiliata all’esercito siriano che è in prima linea nel combattere i ribelli jihadisti che controllano la vicina provincia di Idlib.
Siamo a Skibijeh, cittadina che, insieme alla vicina Mhardeh, forma un’enclave cristiana lungo il confine tra la provincia di Hama e quella di Idlib, regione a maggioranza sunnita e storicamente ostile al governo di Damasco. Quando nel 2011 scoppiarono le rivolte la maggior parte della popolazione vi aderì e molti villaggi circostanti caddero sotto il controllo dei ribelli e di alcuni gruppi terroristici legati ad al Qaeda. La loro presenza e la loro volontà di eliminare ogni forma di vita cristiana nella regione spinse invece gli abitanti di Mhardeh e Skibijeh a schierarsi compattamente con Assad. Quest’ultimo diede ordine di mandare loro armi e rifornimenti perché venisse costituita la National Defence Force, nata come milizia indipendente e in seguito inquadrata all’interno della 25esima divisione dell’esercito siriano. Ad essa hanno aderito tanti ragazzi del luogo, alcuni dei quali ora siedono intorno a Nabil. Di età compresa tra i 16 e i 35 anni, spesso ex studenti, hanno imbracciato le armi e si sono trovati a combattere contro i propri coetanei dei villaggi circostanti, di molti dei quali erano stati amici. «La popolazione di quei villaggi tornerà a convivere con noi in pace appena avremo finito di cacciare i terroristi, che spesso sono stranieri», dice Nabil con sicurezza.
Per le strade di Mhardeh e Skibijeh si incrociano quasi solo miliziani cristiani, spesso seduti sotto grandi poster di Assad, di Putin ma anche dei volti delle centinaia di ragazzi locali caduti in battaglia. Altri poster mostrano i volti delle donne, degli anziani e dei bambini morti sotto i bombardamenti ribelli che negli ultimi anni hanno incessantemente colpito le due città. Particolarmente intensi sono stati quelli degli ultimi mesi, da quando questo fazzoletto di terra è diventato la prima linea di fuoco più sanguinosa del Paese. La progressiva riconquista di quasi tutto il territorio nazionale da parte dell’esercito siriano ha favorito la convergenza dei ribelli nella regione di Idlib, racchiusa tra la città di Aleppo, Hama ed il confine nord-occidentale con la Turchia. In queste zone si sono dunque asserragliate diverse migliaia di jihadisti provenienti da tutto il mondo: non solo siriani ma soprattutto ceceni, afghani, pakistani, cinesi uiguri, turkmeni, sauditi, magrebini ed europei. Tutti inquadrati in diverse fazioni, molte delle quali sono parte di un network terroristico internazionale, tanto che «la provincia di Idlib è la più grande zona franca di al Qaeda dall’11 settembre. La decisione di alcuni nostri partner di rifornirli con migliaia di tonnellate di armi potrebbe non essere stata l’idea migliore», ha detto Brett McGurk, inviato speciale del governo americano nella della coalizione globale per combattere l’Isis.
Il riferimento è ad alcuni Paesi europei, del Golfo e alla Turchia, quest’ultima presente direttamente con il proprio esercito all’interno della zona franca a supporto di alcune fazioni di ribelli. Per questo motivo, Erdogan è con Putin il protagonista delle trattative internazionali per trovare una soluzione. I due si sono incontrati più volte negli ultimi mesi ed il presidente russo è riuscito a fare approvare la propria linea al governo di Damasco. Mentre ampie fette dello Stato maggiore siriano avrebbero voluto lanciare un’offensiva totale per riconquistare Idlib i russi sono riusciti a convincerli ad optare per un attacco più circoscritto in alcuni luoghi per evitare uno scontro aperto con l’esercito turco, cosa che risponde agli interessi strategici del Cremlino. Lo spiega il colonnello dell’esercito russo e direttore dell’ufficio militare della TASS Viktor Litovkin: «Per noi, è prioritario avere buoni rapporti con la Turchia perché le nostre navi possano rifornire le basi di Tartous e Latakia attraverso il Bosforo. Così facendo bilanciamo i movimenti delle navi militari americane nel Caspio». Nonostante la mediazione russa, i combattimenti non si sono mai fermati intorno a Mhardeh e Skibijeh, che invece sono state incessantemente sotto i bombardamenti provenienti dai villaggi ribelli situati poco più a Nord. E’ per questo che nel mese di agosto la National Defence Force è andata all’attacco riuscendo a cacciare i jihadisti da quattro di questi villaggi.
Lasciandosi alle spalle le due cittadine siriane, andando verso Nord si entra subito nella provincia di Idlib, un territorio brullo e collinoso ricoperto di un’erba secca di un intenso colore giallo. I ribelli sono ancora presenti nelle campagne mentre le milizie pro Assad controllano la strada principale. Ai lati si vedono cartelli stradali affissi dai jihadisti che inneggiano alla guerra santa. Su uno di essi si legge: “Abbasso la democrazia”. Percorrendo la strada si sente il rumore degli aerei siriani che volano a bassa quota, seguiti da forti esplosioni. All’orizzonte, tra il giallo delle colline, emergono delle nubi di fumo nero denso che si dissipa in pochi minuti, segnando così il luogo dove il bersaglio ribelle è stato colpito.
Dei quattro villaggi riconquistati dalle truppe assadiste, quelli di Kaffr Zita, Hobait, Kafr Nbudah e Hasrewa, sono oggi solo dei cumuli di macerie disabitati tra i quali si aggirano i soldati dell’esercito regolare siriano e delle milizie ad esso legate. Alcuni siedono all’ombra dei resti delle case, altri sfrecciano su motociclette tenendosi il kalashnikov sotto braccio, altri viaggiano su carri armati o jeep muniti di lanciarazzi. Altri ancora entrano nelle case abbandonate per svuotarle dei mobili e degli oggetti rimasti, che caricano su furgoni per portarli via. «E’ per riportarli ai loro proprietari», dicono. Durante i bombardamenti l’esercito siriano ha garantito dei corridoi umanitari per i cittadini che volessero passare sotto il controllo governativo, in pochissimi però li hanno utilizzati. La quasi totalità degli abitanti dei villaggi è fuggita verso Nord insieme ai ribelli. Secondo alcuni soldati, ciò è avvenuto perché «i terroristi sparavano addosso a chiunque volesse utilizzare i corridoi». Altri soldati si dicono invece convinti che la popolazione locale sia scappata con i terroristi perché permeata dell’ideologia.
Questi villaggi erano sotto il controllo di Jaych al Naser e Jaych al Azzah, due gruppi ribelli legati ad al Qaeda. La roccaforte del primo era a Kafr Zita, quella del secondo era invece all’interno di una montagna di tufo nelle campagne. Circondata da trincee scavate nel terreno, questa montagna ha da un lato un foro scavato artificialmente che permette di accedere ad un cunicolo. Entrando diventa improvvisamente tutto buio, si sente solo un forte odore di cibo avariato insieme al ronzio delle mosche, cibo abbandonato pochi giorni prima dai ribelli in fuga. Poi, appena la vista si abitua al buio, ci si accorge di essere dentro un’ampia galleria scavata artificialmente nella roccia che, proseguendo, si dirama in un grande numero di stanze e larghi cunicoli sotterranei che formano un labirinto esteso per tutta l’area della montagna. I pavimenti sono ricoperti di oggetti abbandonati in fretta e furia: pentole, materassi, indumenti, walkie talkie, batterie, cavi elettrici, elmetti da guerra, maschere anti-gas. Dalle pareti rocciose spuntano dei tubi, segno che tutto il complesso era rifornito di elettricità. Esplorando questi cunicoli, muniti di torce e facendo attenzione ad ogni passo per evitare di calpestare possibili mine, che i ribelli possono avere lasciato dietro di loro, si sbuca su diverse altre uscite. Alcune delle quali guardano sulla strada che va verso Est e che, costeggiando il confine tra le regioni di Idlib e Hama, porta fino ad Aleppo. Anche il percorso di questa strada è intervallato da rumori di aerei, esplosioni e nubi di fumo che si alzano dalle campagne. Segnali di una guerra che molti credono essere terminata ma che da queste parti è più viva che mai. E la cui fine sembra essere ancora lontana.
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