Da circa tre governi l’Italia non ha alcuna politica estera. Non dico che ne ha una sbagliata, ma che non ne ha proprio nessuna. Quindi, nel 2011 abbiamo abbandonato alla concorrenza europea il nostro vecchio e folle amico Muammar al Munyar el Gheddafi, che proprio i nostri Servizi avevano scelto e addestrato come successore dell’inetto re Idriss, che non era mai stato a Tripoli e lavorava solo per gli interessi petroliferi inglesi. Basterà una vacanza termale del re dei senussiti in Turchia, per far fare il golpe.
Ora, “grazie” al presidente Napolitano, che decise l’appoggio italiano all’attacco francese e poi britannico senza consultare il capo del Governo Berlusconi, notoriamente contrario, abbiamo distrutto un regime amico, per lasciare nelle mani francesi e inglesi un disastro inenarrabile, fatto di milizie armate criminali che tengono in piedi i governi, di traffici illeciti e di immane instabilità politica e sociale. La decisione avvenne durante una riunione riservata, tenutasi durante un intervallo, alla “Prima” presso il Teatro Alla Scala milanese.
Siamo stati quindi esclusi, almeno in parte, dalla nostra vecchia Libia. Non ci risulta nemmeno, e a Tunisi ce la richiedono incessantemente, una nostra politica ad hoc per la Tunisia, vista la crisi attuale. Il Mediterraneo, area naturale ed eterna della nostra stabilità economica ed energetica, sembra non interessarci più. Che Dio ce la mandi buona. Di cosa dovremmo interessarci, quindi, della Polinesia?
La Libia fu una banca di affari aperta 24 ore al giorno, durante la grande crisi italiana degli anni ’70, poi Gheddafi fu anche un amico a cui far risolvere alcune faccende in Medio Oriente, poi anche una fonte di notizie un po’ fantasiosa ma spesso efficace.
Ora, la Libia è in piena e assoluta crisi, non certo risolubile con le chiacchiere, che però l’UE non sa nemmeno fare. E l’economia locale? Si calcola che la Libia abbia perso, dalla “democratizzazione” del 2011 fino ad oggi, oltre 200 miliardi di euro, ma solo in infrastrutture e capitale produttivo. La produzione di petrolio è ancora bassissima rispetto, ai picchi degli ultimi anni, prima dell’arrivo della democrazia, con una media estrattiva che arrivava fino ai 1,6 milioni di barili per giorno. Oggi, tutti gli esperti del mercato petrolifero mi dicono che “il petrolio libico non è più importante”.
E allora come rifinanziamo il Paese? Lo lasciamo in eterno in gioco tra le fazioni armate, ponte aperto a tutte le migrazioni di massa dall’Africa subsahariana? In ogni caso, per far ripartire la Libia occorre, come ci dice la Confindustria, almeno un piano straordinario di investimenti per 150 miliardi di euro in dieci anni. I finanziamenti sarebbero americani e EU. Ma perché? Per neutralizzare il petrolio libico, che è ormai battuto politicamente dallo shale oil degli Stati Uniti? Non lo sappiamo. Forse per evitare che Mosca, secondo gli Usa, si sieda sugli spalti del Porto di Tripoli, riaperto solo nell’agosto 2018? Oppure per far cessare l’arrivo dei migranti in Libia, che passano dalle aree di Agadez sotto gli occhi poco vigili dei militari francesi?
Sempre secondo le analisi già diffuse, l’Italia potrebbe operare nelle infrastrutture libiche e per la ricostruzione per un totale di almeno 30 miliardi. Alla fine, potremmo avere un Paese che assorbe circa un miliardo di importazioni italiane l’anno.
Malgrado la lotta del petrolio americano per farsi un mercato in Italia, mettendo fuori gioco i russi (primo obiettivo) e poi i tradizionali fornitori africani (Libia, Nigeria) poi Tripoli (e la Cirenaica) i libici di entrambe le principali fazioni rimangono i terzi fornitori di petrolio per l’Italia. Attualmente, il primo nostro fornitore è l’Iraq, oggetto di destabilizzazione jihadista dalla Siria, poi il più tranquillo Azerbaigian, infine, appunto, la Libia. Una notevole insicurezza generale delle forniture, che dovrebbe farci pensare. Se avessimo una politica estera.
Ma noi importiamo anche, dalla Tripolitania, il petrolio grezzo libico che raffiniamo, per poi rivenderlo proprio ai libici. Un business di grande rilievo. Nel 2011 il portaborsetta francese di Carla Bruni e il suo geniale collega britannico, per danneggiare l’Italia, hanno distrutto una Libia che aveva un PIL pro-capite di 30.000 Usd, tre volte quello di Algeria ed Egitto e largamente superiore alla media del nostro Meridione. Questo ce lo ha raccontato una bellissima ricerca della Fondazione Bertelsmann, uscita pochi giorni prima del 19 marzo 2011, giorno di inizio dell’attacco di Francia e poi di Inghilterra e Usa verso Tripoli, utilizzando per l’occasione molti militanti del jihad siriano e afghano che erano tornati a casa. Come dire: i nemici si alleano per affossare gli amici. Al tempo la sola Cirenaica era, in percentuale sulla popolazione totale, la maggiore area di esportazione di jihadisti in tutto il mondo arabo-islamico.
Poi, c’è la concorrenza della Cina, che è già arrivata ad avere il 12,5% del commercio libico, il secondo posto dopo l’Italia. Insomma, sarà bene che la sfera di Pomodoro, nel senso di Arnaldo, cioè quell’opera che incombe sulla Farnesina cessi di ipnotizzare la politica estera italiana, come la kryptonite per Superman.
Marco Giaconi
Laurea in Filosofia moderna e contemporanea presso l’Università di Pisa. Dal 1992 in è prima direttore e poi direttore di ricerca presso il Ce.Mi.S.S. (Centro Militare di Studi Strategici). Nel 2000 è Consigliere del Ministro della Difesa Antonio Martino. Dal 2003 in poi è Consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Autore di numerosi saggi.
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