Sabato 14 settembre dieci droni hanno attaccato due stabilimenti della Saudi Aramco, la compagnia statale di idrocarburi dell’Arabia Saudita. Gli attacchi sono avvenuti nello stabilimento di Abqaiq e nell’area di estrazione di Khurais, nell’est dell’Arabia Saudita, e sono stati rivendicati dal portavoce militare dei ribelli sciiti Houthi, che godono dell’appoggio dell’Iran. Gli Houthi sono presenti nel Nord dello Yemen e dal 2015 combattono nella guerra civile in corso nel Paese contro le milizie del governo locale, dalla cui parte è schierata l’Arabia Saudita. Guerra in cui Riad si troverebbe in una posizione di svantaggio. Gli attacchi di sabato hanno causato la riduzione di metà della produzionedel petrolio saudita e del 5% della produzione globale e, come sottolinea un’analisi del Finalcial Times, avrebbero messo in pericolo l’immagine dell’Arabia Saudita quale fornitore affidabile di petrolio.
Gli analisti sono ancora divisi sulla questione che riguarda chi abbia lanciato gli attacchi agli impianti sauditi, che potrebbero non essere partiti dallo Yemen ma dall’Iraq. Il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo invece non ha dubbi e ha puntato il dito contro l’Iran. Il Presidente americano ha dichiarato che “le verifiche sono ancora in corso” e che vorrebbe “evitare” un conflitto militare. In passato, alcuni attacchi sferrati dagli Houthi si erano rivelati dei fallimenti, ma nell’ultimo anno i ribelli hanno dimostato di aver perfezionato la loro capacità di penetrare terrirori sempre più lontani dallo Yemen e grazie all’utilizzo dei droni diventati sempre più sofisticati. Un attacco come quello di sabato scorso, però, a detta degli analisti, farebbe pensare che dietro ci sia il coinvolgimento diretto di Teheran.
I velivoli a disposizione degli Houthi, il Qasef 1 e 2 K, l’UAV-X, sono mezzi elaborati sul modello di quelli iraniani. I droni di cui fanno uso i ribelli filo-iraniani verrebbero assemblati in Yemen con il supporto tecnico degli esperti Hezbollah del Libano. Secondo un recente report dell’ONU, i droni UAV-X a disposizione degli Houthi avrebbero un raggio d’azione di 1,500 chilometri. Il che vuol dire che rientrano in tale raggio d’azione anche l’impianto nucleare attualmente in costruzione negli Emirati e l’affollato aeroporto di Dubai. Inoltre, in base a un report di ISW News Analysis Group, nell’attacco del 14 settembre sarebbe stato impiegato un nuovo missile cruise “Quds-1”.
Già lo scorso 17 agosto i ribelli sciiti yemeniti avevano attaccato con i droni un giacimento petrolifero e di gas nell’est dell’Arabia Saudita, provocando un incendio. L’attacco, condotto anche in quel caso con una decina di droni, non aveva causato danni alla produzione e secondo i sauditi sarebbe stato “limitato”, ma aveva provato la capacità degli Houthi di poter compromettere la produzione di petrolio del regno saudita. Gli Houthi avevano colpito il giacimento di petrolio e gas di Shaybah, nel deserto, dove vengono prodotti quasi un milione di barili di petrolio al giorno. Un noto analista tedesco ed esperto militare coperto da anonimato aveva scritto subito dopo l’attacco del 17 agosto che quello sarebbe stato un momento in grado di cambiare il corso della guerra civile in Yemen. Quell’attacco, dunque, avrebbe decretato la sconfitta dei sauditi. Inoltre, l’esperto militare aveva avvertito che i siti vitali per l’economia saudita erano a rischio, scenario confermato dagli attacchi del 14 settembre. Gli analisti di Long War Journal hanno contato almeno 103 attacchi sferrati con i droni dagli Houthi tra Yemen e Arabia Saudita. Gli attacchi dal 2015 arriverebbero a 400 se si contano i missili cruise e i missili balistici. Tutto questo può essere descritto come un conflitto asimmetrico tra regno saudita e ribelli filo-iraniani, che contano sull’appoggio di Teheran e su risorse molto più limitate del nemico ma efficaci e facili da reperire, come appunto i droni. Gli Houthi avevano già attaccato le batterie di missili Patriot dei sauditi, che non hanno dimostrato di essere uno scudo del tutto valido contro i droni.
In tale contesto va considerata anche la recente spaccatura consumatasi in Yemen tra Emirati e Arabia Saudita, spaccatura che ha diviso il fronte anti-Houthi. I ribelli invece appaiono sempre più tenaci. Le forze del presidente del Consiglio di transizione meridionale (Stc) Aidroos al-Zubaidi, ovvero le forze e le milizie separatiste appoggiate dagli Emirati, avevano occupato il palazzo presidenziale e il porto della città di Aden, ai danni del presidente Hadi Mansour sostenuto da Riad. Ma subito dopo hanno abbandonato le loro posizioni, avendo ricevuto una proposta di tregua dall’Arabia Saudita. Gli Emirati, dopo l’occupazione, avevano fatto appello alla calma, ma non avevano criticato apertamente le mosse dei separatisti. I filo-sauditi avevano così accusato gli Emirati di aver indotto al «colpo di Stato» le forze del Consiglio transitorio del Sud (Stc). Tali sviluppi potrebbero consentire agli Houthi di riguadagnare le vecchie posizioni lungo la costa del Mar Rosso, da cui avevano lanciato attacchi alle imbarcazioni e minacciato la sicurezza dello Stretto di Bab al Mandab.
Erminia Voccia
Giornalista professionista, campana, classe 1986, collabora con Il Mattino di Napoli. Laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università “L’Orientale” di Napoli. Master in giornalismo e giornalismo radiotelevisivo presso Eidos di Roma. Appassionata di Asia.
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