Come la povertà e la crisi economico-istituzionale hanno portato all’emergere della figura di Juan Guaidó
L’inizio dell’emergenza umanitaria (e politica) del Venezuela può essere temporalmente individuato nella primavera del 2013, quando il 5 marzo il colonnello Chávez venne a mancare. Già qualche settimana dopo il prezzo del greggio – su cui si basava più del 90% dell’export del Paese – cominciò a scendere rapidamente, passando dai 120-140 dollari al barile ai 50 del giugno 2014.
Maduro continuò a portare avanti i programmi di redistribuzione del predecessore, esaurendo ben presto la disponibilità di valuta. S’iniziò a stampare moneta, alimentando così l’iperinflazione ma il bolivar (la valuta locale) venne ancora svalutato. L’origine della crisi sociale è, dunque, anzitutto monetaria. Con la produzione affidata solo allo Stato, i prezzi amministrati o meglio imposti dal regime al massimo livello hanno disincentivato le imprese a produrre, cosicché il petrolio ha attirato sempre meno dollari e le sue estrazioni sono rapidamente diminuite.
Il governo avrebbe dovuto intuire e avrebbe potuto fare due cose: rimuovere i prezzi amministrati e lasciare fluttuare il cambio liberamente sul mercato valutario, come fece ad esempio Mosca alla fine del 2014 quando il rublo cadde pesantemente. Forse i venezuelani hanno cominciato a capire solo in quel momento che da lì in poi vi sarebbe stata solo una ripida discesa. Intanto, se n’erano andate anche le multinazionali: ad esempio, la Coca Cola nel giugno del 2016 (per mancanza di zucchero); la Colgate-Palmolive nel febbraio dello stesso anno; la Kellogg’s nel maggio 2018.
Il Venezuela diventa “minaccia alla sicurezza nazionale”
Le problematiche di bilancio divennero più gravi nel 2015, quando Washington uscì allo scoperto e assunse il ruolo di Paese leader dell’“anti-chavismo”. Il presidente Obama dichiarò a marzo di quell’anno che il Venezuela costituiva ormai una «minaccia alla sicurezza nazionale» e la sua Amministrazione varò un piano di sanzioni che avevano influenza sui mercati finanziari americani, ancora oggi vero driver dell’economia globalizzata. Da lì in poi a Caracas è iniziato a mancare di tutto: cibo, medicine, persino prodotti come il sapone. La destabilizzazione finanziaria made in USA ha funzionato, merito del divieto di comprare e vendere nuovi bond del tesoro e della compagnia petrolifera nazionale PDVSA.
Pur avendo goduto di almeno dieci anni di prezzi altissimi con relativo ingresso di valuta pregiata, il chavismo non è però mai riuscito a creare un tessuto produttivo privato, né a differenziare le attività produttive. E anche se le elezioni politiche del dicembre 2015 sono state vinte dall’alleanza delle opposizioni – la Mesa de Unidad Democràtica guidata allora da Jesùs Torrealba (la Mud, un raggruppamento di più di 19 forze diverse, eterogenee) che ottenne 112 seggi in seno all’Asemblea nacional (il Parlamento venezuelano ovvero l’unico organo deputato, ai sensi della costituzione, ad eleggere un presidente) contro i 55 del PSUV – il Governo a proseguito a torreggiare su tutto e tutti.
Di fatto, Maduro ha snobbato l’Asemblea nacional fino al marzo 2017, quando il Tribunal Supremo de Justicia (TSJ) ha avocato a sé i poteri della Camera, compiendo un colpo di Stato. Da quel momento in poi, Maduro ha potuto governare per decreto, essendo tenuto a dare comunicazione delle sue iniziative solo al TSJ. Nel luglio dello stesso anno ha creato l’Assemblea Costituente, avente il compito di riformare la legge fondamentale dello Stato. Da qui, ha preso le mosse un’altra grande ondata di manifestazioni popolari contro il Governo, che ha reagito mettendo a punto un piano sistematico di eliminazione degli avversari. I capi della MUD, Henrique Capriles, Leopoldo Lòpez e Julio Borges, sono stati messi fuori gioco. Non così Juan Guaidò.
Chi è Juan Guaidó
Nel maggio 2018 si sono svolte le elezioni presidenziali anticipate, vinte da Nicolas Maduro in pratica senza concorrenti. Poco prima che questi s’insediasse, però, lo scorso gennaio il giovane Juan Guaidó si è autoproclamato Presidente della Repubblica di fronte a una folla immensa riunitasi nella capitale Caracas. Classe 1983, originario di La Guaira, laureato in ingegneria industriale all’università Ucab della capitale e con un post dottorato alla Washington University, Guaidò si è messo alla testa di un partito antichavista e neoliberista, tendenzialmente socialdemocratico. E lo ha fatto non solo perché sostenuto dagli Stati Unti, ma anche per il fatto che, quando nel 2015 la MUD vinse, le forze che componevano questa opposizione si erano accordate per una presidenza a rotazione dell’Asemblea Nacional. E nel 2019 sarebbe toccato al suo partito. Così come è stato.
Guaidó non è dunque (o non ancora) un leader conclamato, né una figura di primo piano nel mondo politico venezuelano. Ma in quel momento non c’erano alternative. Non a caso si è autoproclamato “Presidente di transizione”, fino a quando cioè non verranno celebrate elezioni vere e proprie. Retoricamente, si propone oggi come “nuevo Bolivar” e ha coniato persino uno slogan funzionale ma raffazzonato, ricalcandolo su uno più celebre: “Sì, se puede!”. Potrà davvero?
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