Al tredicesimo giorno di proteste in Libano il premier Saad Hariri ha annunciato la propria resa. Hariri il 29 ottobre ha dichiarato di voler presentare le proprie dimissioni al capo dello Stato Michel Aoun perché incapace di risolvere la crisi che ha investito la classe politica. L’annuncio è stato accolto con gioia dalla folla, che quasi due settimane fa era scesa in piazza per manifestare contro il governo. La decisione del premier apre una nuova fase per il Paese dei cedri, la prima novità sarebbe l’inevitabile caduta dell’esecutivo attuale. «Ho provato, durante questo periodo, a cercare una via d’uscita, attraverso cui ascoltare la voce del popolo – ha ammesso il premier – la nostra responsabilità ora è proteggere il Libano e resuscitare la sua economia». Contro Hariri ci sono i partiti sciiti, Amal e Hezbollah, che avevano già detto di essere contrari alle dimissioni del governo. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha ripetutamente avvertito il premier della conseguenze delle dimissioni, che a suo dire creerebbero un dannoso vuoto politico.
Le proteste contro la corruzione e le misure di austerità erano iniziate la notte del 17 ottobre nella capitale Beirut e rapidamente si erano estese a tutto il Paese. I manifestanti vogliono la fine del sistema politico attuale e si ribellano alle cattive condizioni economiche. La folla ha iniziato a riprendere alcuni slogan delle Primavere arabe, come “Il popolo vuole la caduta del regime”. Le manifestazioni del 17 ottobre erano nate a seguito della decisione del governo di aumentare il costo delle chiamate attraverso WhatsApp e altre applicazioni simili. La tassa prevedeva un aumento di 20 centesimi di dollaro al giorno, ma davanti alla reazione popolare il governo si era apprestato a ritirare la misura. Il primo ministro aveva quindi chiesto ai partiti della sua coalizione di raggiungere un accordo per un pacchetto di riforme che permettesse di superare la crisi economica, dando di tempo 72 ore. Il giorno 21 ottobre Hariri ha annunciato una serie di riforme, che avrebbero dovuto rispondere alle richieste della popolazione. Queste misure prevedevano: il dimezzamento dello stipendio di politici e ministri; l’abolizione di alcune istituzioni pubbliche, l’imposizione di tasse sulle banche e alcune iniziative per porre un freno alla corruzione. La corsa ai ripari da parte del governo, tuttavia, era arrivata tardi: le proteste in Libano non erano più solo delle manifestazioni contro le politiche di Hariri, ma lo sfogo di un popolo che era sembrato resistere alle Primavere arabe e che ora lentamente si starebbe destando.
La particolarità delle proteste in Libano è aver mostrato un senso di unità tra la popolazione e tra le diverse confessioni religiose, tra le diverse comunità e gli strati della società. Per la prima volta, le persone dei diversi gruppi religiosi si schierano insieme a difesa dei propri interessi, come se ad unirli ci fosse il senso di appartenere a una sola nazione. E non sembra emergere un unico leader, elemento che potrebbe rivelarsi pericoloso. «Il presidente deve essere un cristiano, il presidente del Parlamento uno sciita e il primo ministro un sunnita, questo è il problema», ha affermato con chiarezza un manifestante. La frase sottolinea un punto cruciale e svela forse la ragione principale delle proteste libanesi: quel sistema che avrebbe dovuto garantire la stabilità e la rappresentatività tra le comunità etnico-confessionali del Libano sarebbe ormai da superare. Tale sistema ha prodotto un grave deficit di bilancio, corruzione delle istituzioni e fragilità. Ora sembra esserci solo incertezza all’orizzonte, ma i libanesi potrebbero scoprirsi un popolo più unito.
Clarice Contini
Giornalista, laurea magistrale in Relazioni Internazionali, fiorentina, classe 1986.
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