L’Arabia Saudita, dopo anni di ritardi e false partenze, ha dato avvio ufficialmente alla privatizzazione parziale della compagnia petrolifera statale e gioiello della famiglia reale saudita: Saudi Aramco. L’organismo che regola il mercato domenica 3 novembre ha dato l’ok all’Ipo, Iinitial pubblic offering, ultimo passo di un piano di privatizzazione promesso dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) sin dal 2016.
La quotazione sulla borsa nazionale del gigande petrolifero potrebbe essere il più grande collocamento del mondo, l’offerta pubblica di acquisto più vasta di sempre. Saudi Aramco è considerata la società più redditizia esistente, ma domenica nel dare l’annuncio non sono stati diffusi dettagli più precisi sul numero di titoli da piazzare in Borsa, sul prezzo e sulla data precisa della vendita. La valutazione della società varia molto e oscilla tra i 1,200 ai 2,300 miliardi di dollari. Secondo il principe MbS, che persegue l’obiettivo di diversificare l’economia saudita, tale valutazione dovrebbe andare oltre i 2000 miliardi di dollari, almeno questa sarebbe l’ambizione. Ma le valutazioni potrebbero essere invece ben inferiori, a detta dei banchieri e a giudicare dalle offerte degli investitori. Il parere di alcuni analisti è che la valutazione di 2000 miliardi sia un’esagerazione. Se così fosse, Saudi Aramco diventerebbe la compagnia dalla valutazione più alta del mondo, andando oltre Apple. Gran parte dei ricavi dovrebbero finire nel Public Investment Fund, un fondo gestito da MbS che dovrebbe realizzare progetti per rendere il regno meno dipendente dal petrolio.
La quota che sarà messa sul mercato potrebbe essere pari all’1 o il 2%, vale a dire che l’incasso, almeno all’inizio, dovrebbe oscillare tra i 20 e i 40 miliardi di dollari. Legal & General Investment Management non avrebbe ancora deciso se investire o no in Aramco, riporta Reuters, la vicinanza tra il presidente della compagnia, Rumayyan, e il principe ereditario saudita MbS, sarebbe infatti fonte di preoccupazione tra gli investitori.
A quest’incertezza va aggiunta la scarsa sicurezza mostrata dai sauditi nel difendere gli impianti petroliferi, come è stato dimostrato dall’attacco subito dalla compagnia negli stabilimenti situati nel deserto lo scorso 14 settembre, attacchi che hanno fermato temporaneamente la produzione. Aramco però ha detto che l’assalto al cuore degli impianti sauditi non avrà effetti sugli affari a lungo termine e che tali eventi non hanno ridotto la produzione totale. Ma al di là delle dichiarazioni dei sauditi, il timore è che gli impianti possano essere colpiti nuovamente anche a fronte delle tensioni nell’area. Per quegli attacchi gli Stati Uniti hanno accusato l’Iran, che invece ha negato di aver preso parte all’operazione con i propri missili cruise e i propri droni. I ribelli Houthi dello Yemen hanno rivendicato la responsabilità, ma secondo molte analisi, un assalto di quella portata non poteva che arrivare dall’Iran, anche perché gli Houthi non sarebbero in grado di colpire obiettivi così lontani operando dalle aree che sono sotto il loro controllo. Nel rispondere alle domandde dei giornalisti, che mettevano in dubbio la stabilità degli impianti di Aramco, il presidente al-Rumayyan ha provato a rassicurare gli investitori.
Aramco produce più di 10 milioni di barili di petrolio al giorno, il che significa che copre quasi il 10% della domanda globale. L’incasso totale netto della compagnia nel 2018 è stato pari a 111, 1 miliardi di dollari, ben oltre i guadagni di BP PLC, Chevron Corp., Exxon Mobil Corp., Royal Dutch Shell PLC e Total SA messi insieme. Tuttavia, nel 2016, quando il prezzo del petrolio ha toccato il suo record negativo, il guadagno totale netto della compagnia saudita si era fermato a soli 13 miliardi di dollari, motivo che avrebbe spinto Riad a trovare modi per diversificare la sua economia, puntando sul turismo, ad esempio.
Redazione
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