Una testimonianza confusa, a tratti persino contraddittoria. Ma senza alcun dubbio esplosiva. Le parole dell’ambasciatore statunitense presso l’Unione Europea, Gordon Sondland, scoppiano come una bomba nel cuore della politica americana.
Sue le pressioni sull’Ucraina per far sentire a Biden, figlio ma soprattutto padre, il fiato sul collo delle indagini che avrebbero dovuto e voluto incastrarlo in un imbarazzante conflitto di interessi. Non sue, invece, le istruzioni che lo stesso Sondland caratterizza come precise. «Personalmente, ho agito in buona fede. Ma sulla base di una richiesta diretta del presidente. Pence sapeva, Pompeo sapeva, Giuliani sapeva. Tutti sapevano». Boom. Proprio su «diretta», però, è costretto un attimo dopo a smentirsi. Durante il question time riservato ai repubblicani, infatti, il diplomatico vacilla.
«Non che Trump in persona o al telefono me lo abbia mai chiesto, ma “due più due fa quattro”» e le intenzioni del tycoon, insomma, erano dal suo punto di vista chiarissime: vincolare la concessione di aiuti militari a Kiev, alla produzione di prove politicamente rilevanti nel quadro più vasto della corsa alla Casa Bianca 2020.
Un meccanismo che Sondland lascia intendere e che spiega a modo suo, ma che non riesce ad aggrappare a parole o a fatti concreti.
Viceversa, ad aggrapparcisi a sua volta è proprio Trump.
Sembra la scena di un film: il Giardino delle Rose del civico 1600 di Pennsylvania Avenue, il rumorosissimo elicottero presidenziale pronto a partire alla volta del Texas e l’audizione alla Camera ancora in corso. «È tutto finito!», taglia corto appoggiandosi a uno dei passaggi chiave di quella che è con ogni probabilità la giornata più complessa della sua intera esperienza politica.
«“Che cosa vuoi dall’Ucraina?” chiede lui a me», grida forte The Donald leggendo il foglio che riporta i virgolettati di Sonderland scritti a caratteri cubitali e impiastrati di evidenziatore.
«Be’, ecco la mia risposta, siete pronti? Avete acceso bene le telecamere?», prende in giro, fa una pausa e riparte: «Non voglio nulla, non voglio nulla!». Lo scandisce per ben due volte, così come sarebbe avvenuto nel corso della telefonata attorno alla quale si muove lenta ma inesorabile la macchina giudiziaria. «Non voglio nessun “qui pro quo”, di’ a Zelensky di fare la cosa giusta».
Una frase che di dubbi ne lascia comunque un bel po’, ma che effettivamente non consegna la famosa pistola fumante nelle mani dei democratici.
È evidente, però, che di appigli per scalare la parete dell’impeachment adesso ce ne sono parecchi. Specie se si considera l’eventualità, più che probabile a questo punto, che vengano convocati per ulteriori testimonianze tutti gli altri big chiamati in causa da Sondland. Una sorta di possibile effetto domino dalle conseguenze tanto imprevedibili, quanto magari devastanti.
Se da tre anni e fino a ieri l’America era spaccata in due metà, ora è in guerra con se stessa.
Ora, è autentica apocalisse.
Eppure, per concludere, la sensazione è un’altra: che l’opposizione dem, cioè, più che ad incriminare, ambisca a sfiancare un avversario che teme, che percepisce come apparentemente invincibile, ma che si mostra, oramai, palesemente stanco e forse addirittura alle corde.
Pubblicato Su Il Mattino
Luca Marfe
Giornalista professionista, classe 1980, napoletano. Laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università “L’Orientale” di Napoli, master in Relazioni Internazionali alla SIOI. Collabora con Il Mattino di Napoli, Vanity Fair, esperto di Stati Uniti e America Latina.
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