Una rivoluzione in continua crescita quella di Hong Kong, segnata dal sangue, ma che vede l’intervento USA come lo scacco che potrebbe cambiare le regole del gioco. Vediamo insieme il perché.
1. L’INIZIO DELLE PROTESTE
Formalmente le proteste ad Hong Kong sono iniziate ad aprile, quando il Governo locale propose una legge che avrebbe consentito alle Autorità di detenere fuggitivi o richiedenti asilo politico, per poi consentirne l’estradizione verso la Cina. La città non aveva alcuna legge che regolasse la materia. Questa proposta lo avrebbe permesso. Conseguentemente, gli hongkonghesi hanno iniziato a manifestare contro l’emendamento, impauriti dal fatto che avrebbe consegnato alla Cina il potere di estradare anche i cittadini locali della penisola e giudicarli in base al proprio sistema legale. Secondo i manifestanti, questo avrebbe messo a repentaglio le loro libertà e diritti, godendo Hong Kong di un buon grado di autonomia rispetto a Pechino.
Oltre alle recenti intensificazioni delle proteste, che hanno portato alla cattura e all’uccisione di molti giovani, gli Stati Uniti sono uno dei pochi Paesi che hanno preso una ferma posizione riguardo alla situazione. Le due Camere del Congresso statunitense hanno recentemente approvato una proposta di legge, la Hong Kong Human Rights and Democracy Act, che grazie alla firma del Presidente Trump esprime la chiara impostazione degli USA verso il futuro di Hong Kong, permettendo l’introduzione di ulteriori sanzioni verso la Cina e proponendo di rivedere i contratti commerciali tra i due Paesi. Inoltre gli USA hanno anche passato un prospetto che vieta la vendita e l’esportazione di gas lacrimogeno, proiettili di gomma, e qualsiasi altra arma utilizzata dalla polizia verso i manifestanti, esortando la comunità internazionale a procedere ugualmente viste le presunte violazioni dei diritti umani.
2. UN PAESE, DUE SISTEMI
La posizione presa dagli Stati Uniti nei confronti delle proteste potrebbe aiutare lo status quo di Hong Kong. L’autonomia della città rispetto a Pechino è un guadagno economico non solo per gli USA, ma anche per tutti gli altri Paesi che intraprendono rapporti commerciali con la penisola. Le libertà civili ed economiche, insieme alle rigorose normative di legge che regolano Hong Kong sono quelle che permettono la sopravvivenza del paradigma dello Stato unico con due sistemi, paradigma che gli USA in primis, attuando una ferma politica estera, potrebbero proteggere.
Da molti mesi sull’agenda dei policymaker statunitensi si discute per mantenere questo status quo, nonostante le forti proteste del Governo cinese. Difatti, la portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, ha recentemente annunciato la posizione del Governo verso i decreti approvati dagli Stati Uniti. Hua ha dichiarato queste leggi una violazione della giurisdizione nazionale, accusando gli USA di interferire nelle proteste e negando conseguentemente l’approdo delle navi militari statunitensi nel porto della penisola. Inoltre il Governo cinese ha minacciato di limitare il potere di azione di molte organizzazioni non-governative, come Human Rights Watch e Freedom House, accusandole di aver fomentato la protesta, di aver incoraggiato i manifestanti anti-Cina e di essere strettamente legate a Washington. Da parte loro gli USA hanno commentato queste scelte come prevedibili, mantenendo la tensione nei rapporti tra i due Paesi.
Nonostante questo c’è un rasserenamento tra i due colossi economici grazie a un nuovo accordo commerciale che potrebbe sospendere i dazi previsti per metà dicembre. Tuttavia gli USA non cambiano il loro punto di vista su Hong Kong. Come riportato dal sito ufficiale della Camera di Commercio statunitense di Hong Kong, la penisola non può rischiare di perdere la propria autonomia. Ciò metterebbe a rischio sia il commercio bilaterale, che solo nel 2018 è ammontato a 31,1 miliardi di dollari, sia la reputazione internazionale dal punto di vista economico della penisola stessa.
3. UN FUTURO INCERTO
La protezione dei diritti umani è il focus centrale del dibattito politico internazionale, considerate le presunte violazioni subite dai giovani hongkonghesi. Gli Stati Uniti hanno difatti dichiarato che il loro primo interesse a Hong Kong è la tutela di questi diritti universali, sottolineando che il nuovo decreto è semplicemente un’estensione della politica estera attuata verso la città autonoma dal 1992 a oggi. Aggiungendo inoltre di essere fiduciosi sul fatto che la Cina rispetti questi diritti data la loro universalità e i recenti sviluppi nella regione dello Xianjiang.
Nonostante le pressioni internazionali e le condanne da parte delle Nazioni Unite, la situazione a Hong Kong non vede un miglioramento in termini di violenza. Recentemente le università locali si sono trasformate in un vero e proprio campo di battaglia, causando il rimpatrio di centinaia di studenti internazionali, e le strade sono diventate un mix tra mattoni e molotov fatti a mano, portando alla chiusura di molte Ambasciate e sedi consolari, come ad esempio quella statunitense. Un chiaro segnale è stato poi il risultato delle elezioni distrettuali tenute a fine novembre e utilizzate come un “referendum“, che hanno mostrato la volontà dei cittadini verso delle politiche pro-democratiche. Malgrado un lieve cambio di atteggiamento di Pechino in seguito alla tornata elettorale, le proteste continuano e gli Stati Uniti non abbandonano la loro posizione pro-Hong Kong. L’atteggiamento USA non muta, viste anche le previsioni del Financial Times su un futuro molto incerto per la città autonoma, ma con i mercati azionari stabili nonostante le proteste. Per concludere, oltre alle motivazioni economiche gli USA considerano la loro politica estera come l’unica in grado di salvare il paradigma dello Stato unico con due sistemi, sempre se applicata nel migliore dei modi.
Giulia Anderson, Il Caffè Geopolitico
Photo: Hong Kong’s Umbrella Revolution #umbrellarevolution #umbrellamovement #a7s #sony #occupyhk” by Studio Incendo is licensed under CC BY
Giulia Anderson
Laureata magistrale in Relazioni Internazionali Comparate presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, specializzando il percorso sui rapporti USA-Medio Oriente – con un focus sulla politica estera statunitense verso l’Iraq e i Curdi.
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