Mercoledì 15 gennaio gli Stati Uniti e la Cina hanno firmato a Washington un primo accordo nell’ambito di uno scontro definito nel corso degli ultimi anni “guerra commerciale”. I negoziati, lunghi e difficili, hanno portato la Cina e gli Usa a un accordo di “fase uno” che è stato descritto più come una tregua che come una sostanziale pace tra le due maggiori economie del mondo.
In base a tale accordo, la Cina si è impegnata ad acquistare prodotti statunitensi per circa 200 miliardi di dollari, prodotti che riguardano il settore alimentare e quindi mais, fagioli, riso, pollame e maiale, nei prossimi due anni. Dal canto loro, gli Stati Uniti hanno acconsentito a fermare l’entarta in vigore degli ulteriori dazi del 15%, già annunciati, su quasi 160 miliardi di dollari di prodotti made in China. Tuttavia, i dazi più onerosi, vale a dire quelli sui prodotti cinesi dal valore di 360 miliardi di dollari all’anno e sui prodotti statunitensi da 100 miliardi di dollari l’anno, non sono stati cancellati e resteranno in vigore in attesa di verificare come andrà l’accordo. Alcuni punti sono rimasti in sospeso, come la richiesta formulata dagli Stati Uniti alla Cina di ridurre i sussidi statali che il governo di Pechino assicura alle proprie industrie dell’acciaio e dei pannelli solari. Tali sussidi sono osteggiati dagli americani perché dalo loro punto di vista hanno consentito alla Cina di arrivare a dominare il mercato mondiale di tali prodotti, facendo concorrenza sleale alle aziende statunitensi. Di certo, la Cina non si aspettava un 2019 così complesso. Dello scontro a tutto campo con Trump ne abbiamo scritto nell’ultimo numero di Babilon:
LO SCONTRO A TUTTO CAMPO CON TRUMP
Sicuramente la leadership cinese non si aspettava un anno così difficile. Sulla carta, infatti, il 2019 avrebbe dovuto essere contrassegnato dal rafforzamento della posizione internazionale del Paese e dalle trionfali celebrazioni per il settantesimo anniversario della nascita della Repubblica Popolare, proclamata ufficialmente da Mao Zedong il 1 ottobre 1949. Ma tali premesse non sembrano più rispondere alla realtà. Anzi, l’anno del maiale (secondo lo zodiaco cinese) è apparso come uno dei più ardui e delicati nella storia del regime comunista dai tempi di Piazza Tiananmen. La parabola ascendente di una Cina ricca e sicura di sé è forse giunta a una svolta cruciale, che potrebbe definire – nel bene e nel male – il futuro del Paese per i prossimi decenni.
I fattori che alimentano tale svolta sono molteplici e variegati. Il più importante è sicuramente il duro confronto con gli Stati Uniti di Donald Trump, che sembra ormai avere assunto le forme di una vera e propria “guerra fredda” per l’egemonia internazionale. Dai provvedimenti contro Huawei agli attacchi retorici al mega-progetto della Belt and Road Initiative, non passa quasi giorno senza che Washington alzi il livello della tensione con Pechino e allontani la possibilità di un ragionevole compromesso per chiudere la guerra tariffaria che oppone da mesi le due principali economie mondiali. La fragile tregua raggiunta al G20 di Buenos Aires sembra ormai terminata, mentre negoziatori moderati come il vice-premier cinese Liu He faticano sempre più a trovare sponde su entrambi i lati del Pacifico. D’altronde, gli interessi cinesi e quelli statunitensi sono troppo divergenti per consentire una risoluzione effettiva degli attriti commerciali e tecnologici visti in questi mesi. Certo, ci sono le pressioni di aziende e investitori, sempre più danneggiati dalle tariffe e controtariffe dei due contendenti, ma la logica della competizione tra potenze rivali sembra aver preso il sopravvento su considerazioni meramente economiche. Non è ancora la famigerata “trappola di Tucidide” citata continuamente da diversi analisti di politica internazionale, ma ci va piuttosto vicino. E costringe la Cina a fare scelte rischiose e costose, che Pechino avrebbe probabilmente preferito evitare, almeno nel breve periodo.
Basti pensare a Huawei, ad esempio. L’azienda di telecomunicazioni di Ren Zhengfei prevede perdite consistenti nel prossimo biennio a causa dei divieti di vendita statunitensi, e sta cercando di elaborare una strategia per mantenere la sua leadership nel settore 5G. Inoltre, le pressioni politiche di Washington e i dubbi dei governi amici dell’America potrebbero mettere a rischio la sua presenza nei mercati asiatici ed europei. Difficile, quindi, che Pechino non intervenga a sostegno della compagnia – vero fiore all’occhiello della nuova potenza economica cinese – ma tale intervento potrebbe essere controproducente e aumentare i sospetti internazionali sull’affidabilità dei prodotti Huawei. Finora, il governo cinese non sembra essere riuscito a trovare una soluzione convincente e definitiva a tale rischiosa contraddizione.
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Simone Pelizza
Ricercatore, piemontese doc, laureato in Storia all’Università Cattolica di Milano, poi gli studi in Gran Bretagna. Asia e Russia, le aree di maggiore interesse. Membro della Società Italiana di Storia Militare, autore di brevi contributi su alcuni giornali accademici.
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