A Brazzaville nei giorni scorsi i paesi dell’Unione africana hanno provato a confezionare una prima “risposta africana” ai vertici europei e alle ingerenze di Russia, Turchia e Paesi del Golfo. Un tentativo che rischia però di fallire sul nascere
Da tregua a cessate il fuoco permanente. È questo l’accordo per arginare la crisi libica a cui è giunto, il 4 febbraio a Ginevra, il Comitato militare congiunto composto da cinque funzionari delle forze armate a sostegno del Governo di accordo nazionale (Gna) del premier Fayez al-Sarraj e da altrettanti rappresentanti del Libyan National Army del generale Khalifa Haftar. Un annuncio indubbiamente valido sulla carta, in quanto raggiunto direttamente dalle parti libiche coinvolte nel conflitto seppur sotto la supervisione di Russia da una parte e Turchia dall’altra, che però dovrà passare per la verifica dei fatti. Considerati gli insuccessi delle precedenti intese, i timori che si tratti per l’ennesima volta di un nulla di fatto sono più che fondati.
In questa fase delicata una delle notizie degli ultimi giorni, passata per lo più inosservata ai radar dei media internazionali, è il tentativo dei paesi dell’Unione africana di sedersi al tavolo che conta delle trattative. Lo scorso 31 gennaio a Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo, si è tenuto l’ottavo incontro del Comitato di alto livello sulla Libia dell’Unione africana. Un summit convocato per confezionare una “risposta africana” alla conferenza di Berlino del 19 gennaio. Come era prevedibile, l’incontro è stato interlocutorio. Da Brazzaville la palla passerà ad Addis Abeba, dove i prossimi 9 e 10 febbraio si porterà avanti il confronto per dettagliare un piano africano per contribuire concretamente alla risoluzione della crisi libica.
I tre punti del vertice
Di concreto, per ora, sono tre i punti emersi dal vertice di Brazzaville. Il primo è l’intenzione dichiarata al termine dei lavori dal presidente della Commissione dell’Ua, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, di formare un comitato che supporterà i lavori preparatori in vista di una conferenza intra-libica che l’Unione africana punta a organizzare in una città libica, e a cui verranno convocati a partecipare le controparti locali, i leader dei gruppi etnici, le delegazioni dei paesi confinanti con la Libia, gli attori internazionali che appoggiano direttamente o indirettamente i due fronti in guerra, le Nazioni Unite, la Lega Araba e l’Unione europea. Il summit di ieri a Ginevra è stata anche l’occasione per testare l’entità di questa iniziativa.
Il secondo punto è la condanna unanime delle ingerenze militari di alcuni paesi stranieri nel conflitto che si sta consumando alle porte di Tripoli, asserragliata dall’aprile del 2019 dalle forze di Haftar che finora, però, non sono ancora riuscite a sfondare. Moussa Faki Mahamat ha denunciato senza mezzi termini il «continuo flusso di mercenari e terroristi nel paese» che «aggrava lo stato di destabilizzazione e anarchia in Libia». Denuncia ribadita dall’inviato speciale dell’Onu per la Libia, Ghassan Salamé, il quale ha ricordato che pochi giorni prima del vertice di Brazzaville ci sono state «continue palesi violazioni» dell’embargo sulle armi, con aerei atterrati in diverse aree della regione di Tripoli per scaricare armamenti di vario genere, veicoli corazzati, consiglieri militari e miliziani indirizzati tanto al Gna quanto alle forze di Haftar.
Salamé ha inoltre citato fonti militari francesi, secondo cui la portaerei transalpina Charles de Gaulle ha intercettato nei giorni scorsi una fregata turca che scortava verso il porto di Tripoli una nave mercantile con a bordo mezzi corazzati. Un flusso di uomini e armi costante, certificato dalle 110 segnalazioni di violazione del fragile cessate il fuoco che il 12 gennaio era stato concordato da Mosca e Ankara. Le accuse di Salamé sono state dunque precise, ma difficilmente freneranno le manovre militari condotte da una parte da Ankara a sostegno di al-Sarraj (a supporto del quale, secondo l’entourage di Haftar, sarebbero arrivati a Tripoli circa tremila miliziani dalla Turchia e dalla Siria), dall’altra dagli Emirati Arabi Uniti a favore di Haftar.
Ciò che è pesato di più al termine del vertice di Brazzaville, ed è questo il terzo punto, è stata però l’assenza di rappresentanti delle due fazioni che si contendono Tripoli. Referenti di alto livello dell’Ua si sarebbero dovuti incontrare separatamente con uomini di al-Sarraj e di Haftar, ma gli incontri alla fine non ci sarebbero stati come confermato da voci diplomatiche congolesi. Un vuoto colmato dal vertice del Comitato militare congiunto libico a Ginevra, che certifica però l’evidente incapacità delle forze africane di incidere su questa crisi.
Sahel a rischio “contagio”
Al netto di questo stallo, l’Unione africana è consapevole che non può continuare a lungo a rimanere ai margini delle trattative. L’immobilismo dell’organizzazione rischia infatti di compromettere la sicurezza dei paesi del Sahel confinanti con la Libia. Non è una novità, d’altronde, che a beneficiare del caos libico siano da tempo quei gruppi armati affiliati ad Al-Qaida (Jama’at Nasr al-Islam wal Muslimin – Jnim) o Isis (Stato islamico del Grande Sahara – Isgs) che operano tra il sud della Libia, Ciad, Niger, Mali, Burkina Faso e Mauritania. Un network del terrore che, solo nel 2019, ha mietuto oltre 4mila vittime. Nel Fezzan lo snodo principale da cui transitano armi e miliziani che dalle coste libiche raggiungono il cuore del Sahel è la città di Ubari, capoluogo del distretto di Wadi al-Hayaa nella parte sud-ovest del paese. Se l’Ua non metterà in campo un intervento strutturato per fermare quest’ondata di instabilità, il contagio per i paesi del Sahel sarà inevitabile.
L’Algeria esce allo scoperto
Se c’è un paese che nel corso del vertice di Brazzaville è uscito allo scoperto, è stato l’Algeria. Il primo ministro Abdelaziz Djerad e il ministro degli esteri Sabri Boukadoum hanno proposto di ospitare in Algeria un forum di riconciliazione sulla Libia ma soprattutto, secondo fonti diplomatiche algerine, avrebbero sondato il terreno per verificare se e quanti stati membri dell’Ua sarebbero favorevoli a costituire una forza militare congiunta per far rispettare il cessate il fuoco. Una missione da attivare sotto l’egida delle Nazioni Unite, che sarebbe funzionale da un lato per fermare i traffici diretti verso il Sahel, dall’altro per arginare le ingerenze degli attori extra-continentali. La proposta sarebbe stata accolta positivamente da buona parte dei paesi africani (in particolare da Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad), ma pare destinata a sbattere contro l’opposizione di Haftar, che considera Algeri un alleato di al-Sarraj.
Proprio sulla figura di Haftar i piani di coesione dell’Ua trovano i maggiori ostacoli. Non è un mistero che la Francia negli ultimi anni abbia fatto pressione sulle sue ex colonie affinché sostenessero il generale. Un’operazione che, però, non ha sortito gli effetti sperati da Parigi. In particolare il presidente del Ciad, Idriss Déby, considerato un alleato del generale libico, si sarebbe messo di traverso poiché non avrebbe ottenuto ciò che aveva pattuito con l’uomo forte della Cirenaica, ovvero mano libera sulla parte sud-ovest della Libia.
I tentativi del passato
A sfavore della ricucitura di queste annose spaccature giocano inoltre i precedenti dell’Ua. Finora gli sforzi dell’Unione africana per ritagliarsi un ruolo di primo piano nella risoluzione del conflitto libico sono sempre falliti sul nascere, compresa l’offerta avanzata un anno fa di nominare un inviato speciale congiunto Onu-Ua. Non va poi dimenticata la “partita nella partita” giocata dall’Egitto. Il Cairo considera la Libia una questione araba e non africana, motivo per cui continuerà a mantenersi defilato ai vertici dell’Ua, occupandosi piuttosto di garantire il proprio appoggio ad Haftar.
A compromettere il raggiungimento di un equilibrio è, infine, la cronica carenza di leadership tra i massimi rappresentanti dell’Ua. Quando, nove anni fa, iniziarono i colloqui di pace per la Libia, i presidenti africani ebbero difficoltà a stabilire contatti con i ribelli di Bengasi. Attualmente l’Ua dispone solo di una ristretta rappresentanza diplomatica tra la Libia e la Tunisia, paese in cui si sono invece svolti in passato vertici importanti. Lo stesso presidente del Congo, Denis Sassou Nguesso, padrone di casa del vertice di Brazzaville, è stato invitato all’ultimo minuto al summit di Berlino dalla cancelliera tedesca Angela Merkel.
C’è poi il fantasma del Colonnello Gheddafi, un’eredità con cui molti leader africani faticano ancora oggi a fare i conti. Durante la rivoluzione del 2011, molti Paesi dell’Ua – a cominciare dal Sudafrica – furono visti dagli oppositori del regime come sostenitori del Colonnello. Questa percezione negativa, mischiata all’appropriazione indebita di molti “tesori” di Gheddafi da parte di suoi ex alleati africani subito dopo la sua uccisione, fa sì che l’Unione africana continui a essere considerata dai libici come un partner scomodo. E questo è un retaggio che i leader africani difficilmente riusciranno a scrollarsi di dosso.
Rocco Bellantone
Caporedattore di Babilon, giornalista professionista, classe 1983. Collabora con le riviste Nigrizia e La Nuova Ecologia di Legambiente. Si occupa di Africa, immigrazione e ambiente.
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