I costi delle pandemie sono difficili da prevedere, a causa delle loro caratteristiche specifiche e uniche. La diffusione di malattie può rivelarsi anche più dannosa dei disastri naturali, degli uragani, degli tsunami o di altri eventi non prevedibili chiamati comunemente “black swans”. Secondo uno studio della Banca Mondiale redatto nel 2013, una pandemia può arrivare a causare perdite economiche valutabili intorno al 5% del Pil mondiale. La Cina nel 2009 ha registrato perdite per 55 miliardi di dollari per la pandemia da virus H1N1. Questo non è il caso del nuovo coronavirus che non è ancora stato definito una pandemia dall’Organizazzione Mondiale della Sanità. A detta degli economisti, molto dipenderà da come il virus evolverà e da come i governi continueranno a far fronte all’emergenza.
Ma il nuovo coronavirus ha già causato effetti negativi per l’economia globale. Turismo, commercio, petrolio, industria tecnologica: sono i settori che più hanno risentito delllo stop di molte attività dovuto alla chiusura di negozi, stabilimenti industriali, al prolungamento delle vacanze del capodanno cinese, alla messa in quarantena di molte città e al congelamento degli spostamenti considerati non essenziali dalle aziende. Dal 2003, anno in cui esplose l’epidemia di Sars, la Cina è diventata la seconda econonomia del mondo, 17 anni fa era la settima. La Cina ha assunto un ruolo sempre più rilevante per l’economia globale passando dal rappresentare il 4% del Pil mondiale a costituirne il 16% nel 2019. La Repubblica Popolare è passata dall’essere “la fabbrica del mondo”, produtrice cioè di prodotti a basso valore aggiunto, come giocattoli o prodotti tessili, a costituire un tassello fondamentale negli ingranaggi della catena di produzione mondiale di beni ad alto valore aggiunto. Impossibile, quindi, che settimane di sospensione di attività non abbiano avuto conseguenze sia nel Paese che al fuori del territorio cinese. Inoltre, dai tempi della Sars, ormai 17 anni fa, la Cina è diventata un mercato fiorente per beni di lusso e auto, con l’emergere di milioni di consumatori benestanti interessati anche a viaggiare. Come se non bastasse, il capodanno cinese è un periodo di grandi migrazioni.
Il settore tech è quello che paga il prezzo più alto del coronavirus, insieme alle compagnie aeree. All’inizio del mese di febbario le maggiori compagnie del settore, tra cui Apple, Samsung, Microsoft, Tesla e Google, hanno chiuso tutti gli uffici, le fabbriche e i negozi in Cina. Alcuni di questi non hanno indicato una data entro cui pensano di riprendere le attività. Apple, secondo Bloomberg, non conta di riaprire i battenti prima del 15 febbraio. Almeno 800 sono i fornitori di Apple in Cina e il Paese è responsabile del 9% della produzione globale di TV. Come scrive Cnn, Qualcomm, il maggiore produttore di chip al mondo, ha lanciato un allarme avvertendo che il coronavirus potrebbe causare un’incertezza significativa per la domanda smartphone e delle forniture di beni necessari a produrli. Secondo S&P Global Ratings, le aziende che producono auto in Cina saranno costrette tagliare la produzione del 15% nel primo quarto del 2020. Toyota, ad esempio, non aprirà gli stabilimenti prima del 17 febbario.
Oppo, Xiaomi, Lenovo e Huawei sono le aziende cinesi più in difficoltà, secondo il South China Morning Post. La difficoltà deriva dal fatto che tali compagnie dipendono dalla provincia di Hubei per i rifornimenti di componentistica. In particolare Lenovo, mentre per Huawei la situazione sarebbe beno grave perchè le attività sono nel Guangdong. La città di Wuhan e la provincia dello Hubei, spiega The Diplomat, sono il motore dell’industria cinese. Quest’area è in controtendenza rispetto al resto della Cina, avendo registrato un tasso di crescita del 7,8% proprio grazie al settore digitale e delle nuove tecnologie. Wuhan, la città da cui si pensa abbia avuto origine la diffusione del virus, è un imporante hub regionale.
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La Cina è il maggiore acquirente di beni quali il petrolio e il rame. Il primo consumatore di greggio al mondo se si contano i 14 milioni di barili al giorno fagocitati dalla Cina. Il coronavirus ha causato infatti un crollo della domanda di petrolio dalla Cina determinando un calo del prezzo di più del 20% da gennaio. Le quotazioni sono in calo anche a causa dell’impasse nei colloqui tra i paesi che fanno parte del cosiddetto gruppo Opec+, formato da Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) e i dieci produttori al di fuori del Cartello guidati dalla Russia. Lo stallo, che sta mettendo a dura prova la cooperazione in campo energetico tra Riad e Mosca, riguarda la decisione di avviare nuovi tagli alla produzione: quasi 600 mila barili di petrolio al giorno.
La diffusione del nuovo coronavirus, infine, arriva in momento storico in cui la Repubblica Popolare ha toccato il livello più basso di crescita economica degli ultimi 30 anni, sebbene si tratti comunque di percetuali di crescita impensabili per molti Paesi europei. In più, tutto questo si cumula all’effetto dei dazi e delle politiche commerciali aggressive degli Stati Uniti verso la Cina. Il tasso di crescita del Pil cinese registrato nel 2019 è stato del 6,1%. Al di sotto delle previsioni più basse di Pechino e ben lontano dal 6,6 del 2018. Zhang Ming, della Chinese Academy of Social Sciences, ha detto a Caijing magazine che la crescita del Pil cinese potrebbe scendere anche al di sotto del 5% nel primo quarto del 2020. Altri sono molto più pessimisti. Come scrive il Guardian, secondo le previsioni, il Pil mondiale potrebbe perdere intorno allo 0,3%.
PHOTO: A shopping area in Beijing. Starbucks and McDonald’s have closed hundreds of stores in China after a virus outbreak.Credit Giulia Marchi for The New York Times
Erminia Voccia
Giornalista professionista, campana, classe 1986, collabora con Il Mattino di Napoli. Laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università “L’Orientale” di Napoli. Master in giornalismo e giornalismo radiotelevisivo presso Eidos di Roma. Appassionata di Asia.
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