Quasi due mesi in mare, circa 400 persone stipate su un peschereccio alla deriva nel Golfo del Bengala, almeno 30 morti nell’ennesimo capitolo del dramma dell’etnia rohingya. Nella notte tra il 15 e il 16 aprile la guardia costiera del Bangladesh ha soccorso nelle sue acque territoriali un’imbarcazione con 396 profughi rohingya. Secondo la guardia costiera, c’erano 182 donne, 150 uomini e 64 bambini salvati dalla barca: erano a bordo da 58 giorni, alcuni di loro erano gravemente malnutriti, disidratati, alcuni incapaci di camminare una volta sbarcati.
Probabilmente cercavano di scappare da uno dei campi profughi del Bangladesh, per raggiungere la Malesia. Ma una volta arrivata nei pressi della costa, l’imbarcazione sarebbe stata respinta dalle autorità malesi, anche a causa dei pericoli legati all’emergenza sanitaria.
Mohammad, un rifugiato di 40 anni, salvato insieme ai tre membri della sua famiglia, ha descritto al Guardian l’orrore di quei 58 giorni dal suo centro di quarantena dove si trova attualmente. La barca dovrebbe aver raggiunto la Malesia «entro una settimana o 10 giorni dopo aver salpato, ma siamo stati respinti. Sapevamo che a causa dell’epidemia di coronavirus le autorità della Malesia sono diventate insolitamente rigide e non ci hanno permesso di atterrare lì».
Il portavoce della guardia costiera bengalese, il tenente Shah Zia Rahman, ha detto: «Negli ultimi sette giorni la barca era entrata nelle nostre acque territoriali. Stavano morendo di fame quando li abbiamo trovati». La guardia costiera avrebbe impiegato tre giorni per localizzare la barca nel Golfo del Bengala.
L’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) ha detto che i rifugiati sono stati messi in quarantena e che avrebbero ricevuto cure in strutture mediche designate a Nayapara e Ukhiya, dove stanno ricevendo assistenza medica e generale. «In linea con le procedure stabilite e in conformità con le direttive del governo per tutti coloro che entrano in Bangladesh, queste perone riceveranno uno screening medico completo e saranno monitorate e messe in quarantena per le prossime due settimane. Nonostante alcune testate affermino che il gruppo potrebbe essere infetto da Covid-19, al momento non ci sono prove a sostegno di queste dichiarazioni», si legge nel documento dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
I rohingya, un grande gruppo etnico tradizionalmente fedele all’Islam, non hanno uno Stato autonomo e le loro più grandi comunità sono divise tra il Bangladesh e il Myanmar. Dal Paese Myanmar sono stati in gran parte cacciati con la violenza e illegalmente negli ultimi tre anni. Ma anche in Bangladesh, stipati in campi profughi dove la vita è insostenibile, i rohingya non riescono a trovar pace. «Le famiglie rohingya non riescono a porre fine alla loro tragica situazione e sono sempre più disposte a rischiare la morte facendo viaggi pericolosi in mare in barche sovraffollate e non sicure – spesso gestite da organizzazioni criminali – per sperare in una vita migliore», ha dichiarato Athena Rayburn di Save the Children. «In Bangladesh non subiscono le brutali violenze che li costringono a lasciare il Myanmar, ma quei campi non sono un posto per bambini. L’accesso all’istruzione e ad altri servizi essenziali è limitato e quei bambini sono a rischio violenza, sfruttamento e abuso. In questi giorni, a peggiorare le cose, c’è la prospettiva di un focolaio di Covid-19, con conseguenze potenzialmente devastanti».
Salvataggi come quello dell’altra notte rischiano di diventare sempre più frequenti. Lo scorso febbraio 15 rohingya erano morti dopo che una nave con 130 profughi a bordo si era capovolta nel Golfo del Bengala. E a inizio aprile la autorità malesi hanno intercettato un’altra imbarcazione di legno con a bordo oltre 200 persone (tra cui cinque bambini) nei pressi dell’isola malese di Langkawi, celebre per i suoi resort turistici di lusso. Noor Hossain, un leader della comunità rohingya del campo profughi di Balukhali, in Bangladesh, ha detto che vi è una crescente disperazione nei campi, poiché sono stati imposte restrizioni più rigide, tra cui un recente blocco del movimento e della connessione a internet mobile, che sta spingendo i rifugiati a chiedere ai trafficanti di aiutarli a fuggire.
Nelle ultime settimane, infatti, la situazione nei campi profughi è peggiorata: per evitare la diffusione del coronavirus, il Bangladesh ha imposto un blocco totale in un distretto meridionale dove sono accampati oltre un milione di rifugiati fuggiti dal Myanmar. Ancora non ci sono contagi nei campi profughi del Bangladesh, ma con il numero ufficiale di casi in crescita a livello nazionale i funzionari governativi hanno ordinato il lockdown: nessuno potrà entrare o uscire fino a quando la situazione non migliorerà. Alcuni esperti hanno avvertito che la malattia potrebbe diffondersi rapidamente nei vicoli angusti, sovraffollati e con le fognature all’aperto: nei nei campi dove alloggiano i rohingya vivono fino a dieci persone in capanne senza acqua corrente e con sanitarie limitate per dimensioni e attrezzature.
In Bangladesh c’è il campo profughi di Kutupalong, nei pressi di Cox’s Bazar, una città nel sudest del Bangladesh, quasi al confine con il Myanmar. Quello di Kutupalong è uno dei campi profughi più grandi e affollati del mondo: ospita oltre 855mila rohingya. In tutta l’area meridionale dello Stato ci sono 34 campi profughi che ospitano i rohingya: si tratta di insediamenti affollati, stracolmi, in alcuni casi inospitali, il più delle volte poco attrezzati per fornire anche i servizi basilari. Le persone sono ammassate anche in 40mila per chilometro quadrato. Per ora l’epidemia sembra non aver ancora raggiunto queste aree, ma in caso di contagio si rischia una diffusione su larga scala: trovare contromisure davvero efficaci, a quel punto, sarebbe quasi impossibile.
Alessandro Cappelli
Giornalista professionista appassionato di politica internazionale e sport. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Orientale di Napoli con una tesi in Storia dell'America Latina. Collabora con Rivista Undici e Linkiesta. Ha scritto il libro "STAND UP, SPEAK OUT. Storia e storie di sport e diritti civili negli Usa".
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