Quando finì di scrivere il suo monumentale racconto sulla guerra civile libanese finita nel 1990, Robert Fisk decise d’intitolarlo “Pity the Nation”. Il più bravo fra i tanti giornalisti occidentali passati per il Libano, Robert si era ispirato alla famosa poesia che Khalil Gibran aveva inserito ne “Il giardino del profeta”, pubblicato postumo nel 1932.
Pietà per la nazione che indossa abiti che non ha tessuto, mangia pane che non ha mietuto e beve vino che non è colato dai suoi tronchi…Pietà per la nazione il cui governante è una volpe, il filosofo un giocoliere e la cui arte è l’arte del rattoppo.
Dunque 1932, 1990 e ora 2020: il Covid, una crisi finanziaria senza precedenti al mondo (bisogna andare allo Zimbabwe di Robert Mugabe per trovare qualcosa di peggio). Infine il disastro al porto di Beirut che ha tutta l’aria di non essere un attentato ma il risultato dell’inettitudine di uno Stato che non ha mai prodotto gli abiti che indossa e comprato il grano dall’estero a prezzi esagerati, per farci la cresta. Pietà per la nazione che tutte le volte rinasce e precipita in una nuova tragedia.
È ormai un luogo comune elogiare la resilienza dei libanesi. In realtà è uno stile di vita: un train de vie, dice la borghesia libanese che ha recuperato il francese fino a trasformare il suo arabo in un arabo parlato con accento francese. Di questo stato delle cose i libanesi tendono a incolpare gli stranieri. Negli anni ’80, in piena guerra civile, il giornalista e politico Ghassan Tueni scrisse un saggio di successo: “Una guerra per gli altri”. La sua tesi era che il Libano non fosse esploso per colpa libanese.
Effettivamente un paese che per due terzi confina con la Siria e per il resto con Israele, è un miracolo di sopravvivenza. Il Libano è sempre stato la cartina di tornasole di tutti i conflitti mediorientali: la nascita d’Israele e la diaspora palestinese, il nasserismo, la rivoluzione khomeinista, le ambizioni di Saddam Hussein, le guerre del Golfo, la guerra civile siriana, il terrorismo di matrice islamica. Ma se è potuto accadere, è soprattutto per colpa dei libanesi. C’era uno Stato ma ha sempre rappresentato gli interessi delle varie confessioni e delle fazioni dentro ogni confessione. Per avere più peso e denaro, ogni partito aveva un padrino straniero, mediorientale o europeo, esercitando dunque tante politiche estere: ognuna nell’interesse del padrino straniero, non del Libano.
Per interesse politico interno e per una forma di cosmopolitismo che in questa regione solo gli ebrei possiedono quanto i libanesi, il Libano è sempre stato interessato alle vicende regionali più di quanto il Medio Oriente lo fosse per il Libano. Il Libano non è un paese fondamentale, non ha materie prime né è geograficamente collocato in un passaggio strategico per i commerci mondiali. Era il centro finanziario del Medio Oriente ma come scoppiò la guerra civile, quel centro andò facilmente altrove.
Ci fu dunque la guerra civile durata 15 anni. E finalmente le fazioni rividero la spartizione del potere nazionale, rendendola più equa. Ognuna delle 17 confessioni aveva la sua fetta di potere. Insieme al tradizionale ésprit libanais, è questo che ha garantito una forma di democrazia che non esiste nel mondo arabo, in Iran e non più in Turchia. La stampa è libera, l’Armée è al servizio della Costituzione e del potere civile.
Ma quel sistema che ha garantito a lungo le libertà civili, è la causa della sua mediocrità economica: non uno Stato ma un insieme d’interessi privati di partito e di setta. Ora è quel muro di poteri particolari che impedisce al paese di uscire dalla sua crisi finanziaria. Le riforme che il Fondo Monetario Internazionale chiede per sbloccare un aiuto immediato da 10 miliardi di dollari, significano la forte riduzione, se non la fine, del potere dei “signori della guerra” ai tempi del conflitto civile, ora proprietari del Libano.
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Nessuna setta si salva dall’abominevole disinteresse per il Libano inteso come comunità nazionale. Ma il comportamento di Hezbollah sciita – che pure è il meno corrotto di tutti gli altri – è forse il più macroscopico. Si è costruito il suo sistema sociale: scuole, ospedali, case popolari. Poi ha fatto il suo esercito, più armato e addestrato dell’Armée. La sua non è un’agenda nazionale ma mediorientale come se fosse uno Stato e non un partito dentro lo Stato: è in guerra permanente con Israele, è alle dipendenze degli interessi iraniani, ha mandato le sue milizie a combattere in Siria, rischiando di coinvolgere il Libano anche in quel conflitto civile. Già nel 2006 aveva provocato una devastante guerra contro Israele. Solo la durezza della risposta israeliana sull’intero paese aveva impedito ai libanesi di parteggiare per il “nemico sionista”.
La scelta strategica di Hezbollah è ancora più sbagliata in questa crisi finanziaria: l’Iran arma la sua milizia ma non ha il denaro per aiutare il Libano. I sauditi si, ma sono stati estromessi dal grande potere della milizia sciita sul paese. All’inizio di luglio Sayyed Hasan Nasrallah aveva tenuto un discorso economico su Al Manar, la televisione di Hezbollah. La proposta del segretario generale del movimento era di offrire il Libano ai cinesi: se il resto del mondo ci chiede le riforme in cambio dell’aiuto, la Cina lo farà gratis.
Quando Nasrallah lascia la religione e la politica per affrontare l’economia, è come Donald Trump quando si occupa di politica internazionale: non sa di cosa parla. È anche per questo che i giovani libanesi rimasti senza speranze, preferiscono emigrare all’estero. Come Khalil Gibran, nato sul Monte Libano nel 1883 e morto nel 1931, a New York.
Pubblicato su Slow News, blog del Il Sole 24 Ore
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