Il mondo cambia ma ce ne accorgiamo sempre con un impercettibile ritardo. Se è vero che i militari giunti al potere a Bamako hanno confermato con il loro portavoce gli impegni internazionali del Paese, è evidente che sono saltati i rapporti fiduciari tra la Francia e l’ex presidente Ibrahim Boubakar Keita. E noi inviamo militari in Mali?
D’estate quando gli altri generali fanno i golpe come in Mali i nostri politici e loro capi di stato maggiore probabilmente sonnecchiano nell’afa. Hanno appena deciso in Parlamento di inviare un contingente di 200 militari italiani in Mali per combattere jihadismo e terrorismo nell’ambito della missione Takuba nel Sahel e c’è da augurarsi che si siano accorti che il presidente Ibrahim Boubakar Keita è stato appena defenestrato, il governo dimesso e disciolta l’Assemblea parlamentare, con allegata promessa, da parte dei golpisti, di prossime elezioni. Il tutto, per ora, senza spargimento di sangue ma con grave imbarazzo occidentale.
Takuba sarebbe – il condizionale è d’obbligo – la terza missione italiana in Africa dopo quella in Libia (400 militari) e in Niger (290), tutte dimostratesi finora discretamente inutili. Quella libica, con un ospedale da campo a Misurata, poi sta diventando quasi ridicola: è come se fossimo affacciati al pertugio di una finestra a osservare di sguincio Erdogan che sta impiantando la sua base militare nel porto più strategico del Paese.
Il putsch di Bamako è un brutto colpo per la Francia che considera il Mali e questa regione la sua riserva di caccia, per l’Europa e l’Italia che finanziano le missioni militari, per l’Onu che qui ha una missione di peacekeeping di 12mila uomini tra forze militari e di polizia, e in generale per un Occidente che si vede sfuggire oltre a “Francafrique” un sistema un tempo imperniato sull’influenza di Parigi e sull’ordine imposto da Gheddafi fino al 2011, quando i francesi decisero, insieme ad americani e inglesi, di sbarazzarsi di un pericoloso concorrente.
Le frontiere africane e del Sahel allora sono sprofondate nel deserto di oltre mille chilometri, i Paesi della regione sono precipitati nell’instabilità, il jihadismo si è impadronito con gli attori locali, come i Tuareg ribelli, delle vie commerciali e del narcotraffico, lo Stato Islamico ha sequestrato intere provincie mentre in Libia, ormai è certo, l’alleanza tra Sarraj, la Turchia e il Qatar ha portato due basi militari ad Ankara e sull’altro fonte è schierata la Russia alleata in questo caso di un Paese Nato, la Francia, nel sostegno al declinante generale Haftar. Insomma un successone per gli strateghi atlantisti.
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Il mondo cambia ma ce ne accorgiamo sempre con un impercettibile ritardo. Se è vero che i militari giunti al potere a Bamako hanno confermato con il loro portavoce, il colonnello Ismail Wagué, gli impegni internazionali del Paese, è evidente che sono saltati i rapporti fiduciari tra la Francia e l’ex presidente Ibrahim Boubakar Keita che era sostenuto non soltanto da Parigi ma anche dalle Nazioni Unite con la missione Minusma, al punto che il Palazzo di Vetro aveva appena pubblicato un rapporto in cui l’Onu si schierava decisamente con Keita e appoggiava la sua azione contro alcuni militari di alto rango corrotti. La Francia aveva così rafforzato la sua presenza militare nella missione Barkane condotta in cooperazione con altri cinque Paesi – Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania, Niger – aumentando gli effettivi a 5.500 uomini, una forza importante ma non ancora sufficiente – in un’area vasta e ostile tra Mali, Niger, Burkina Faso – a sconfiggere diversi gruppi jihadisti, da Al Qaida nel Maghreb, che in giugno aveva perso il suo capo, l’algerino Abdelmalek Droukdel ucciso dai francesi, allo Stato Islamico, ai Boko Haram, ai Tuareg ribelli nel Nord del Mali, essenziali per controllare le vie commerciali e del narcotraffico.
Anche i più ottimisti tra gli osservatori occidentali non hanno mancato di rilevare che questa missione Barkane, affiancata adesso da Takuba e basata proprio in Mali, presenta un intricato nodo politico: gli occidentali sono pur sempre percepiti come degli impenitenti colonialisti e sta crescendo l’insofferenza da parte della popolazione del Sahel per la loro presenza anche perché i governi in carica, sostenuti dalle missioni internazionali, hanno pesanti responsabilità e nell’azione di repressione del jihadismo i loro eserciti si sono macchiati di torture e uccisioni, fino ad arrivare a indicibili accordi con i ribelli che hanno reso dilagante la corruzione e stritolato i civili nella spirale del ricatto e della paura.
Ecco perché il golpe in Mali dovrebbe risvegliare la nostra attenzione. Con una domanda ovvia: chi comanda adesso a Bamako? La mente del golpe sarebbe il colonnello Malick Diaw che ha guidato l’ammutinamento nella caserma di Kati, alle porte di Bamako, la stessa dove ebbe inizio il colpo di stato che nel 2012 portò alla destituzione dell’allora presidente Dioncounda Traoré. Un altro ufficiale che ha svolto un ruolo importante è il colonnello Sadio Camara, scuola militare in Russia, secondo alcuni simpatizzante della Turchia di Erdogan, mentre il terzo golpista eminente è considerato il generale Cheick Fanta Mady Dembele, laureato all’Accademia militare francese di Saint-Cyr.
Ma il regista, che tutti considerano il vero capo dell’opposizione, potrebbe essere l’imam salafita Mahamoud Dicko, il cui nome è stato scandito con entusiasmo dai manifestanti di Bamako. Carismatico religioso originario di Timbuctù, è considerato il vero mediatore con i jihadisti: è stato lui, togliendo il sostegno all’ex presidente, a determinare la crisi politica maliana. Non sarà probabilmente solo il potere militare a determinare la direzione che prenderà il Mali: ma non si ancora se per i nostri strateghi questa è una buona o una cattiva notizia.
Pubblicato su Il Manifesto
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