Una stridula sinfonia coloniale è andata in scena ieri nel Mediterraneo. È stata una significativa giornata di scontro simbolico tra le memorie ottomane, incendiate dal Sultano della Nato Erdogan, e le ambizioni di vecchie e nuove potenze coloniali. Così Macron è andato in Libano a piantare un cedro e a proporsi come paladino dell’ex colonia, proclamata esattamente il primo settembre di 100 anni fa sulle spoglie dell’Impero Ottomano dal generale Gouraud, che oltre al Grande Libano diede vita alla Siria e un anno dopo a uno stato alauita e a uno druso: un capolavoro del «divide et impera» coloniale che pesa ancora oggi.
Israele, potenza occupante dei palestinesi, che ormai viaggia sulle ali della «pace» di Trump con gli arabi del Golfo, non si è fatto sfuggire l’occasione di bombardare i sobborghi di Damasco e ricordare a Macron che si irriterà moltissimo se il presidente francese dovesse incontrare Hezbollah. La Mezzaluna sciita con in testa l’Iran, e la Turchia, sono gli obiettivi della «Nato Araba» a trazione israeliana che dal Medio Oriente all’isola yemenita di Socotra, come scriveva Michele Giorgio sul manifesto, si prepara a diventare il nuovo guardiano della regione.
Anche l’Italia non poteva mancare all’appuntamento con i cascami coloniali della Libia, strappata all’Impero Ottomano nel 1911, dove i turchi sono tornati padroni della Tripolitania. Il ministro degli esteri Di Maio vagolava così ieri tra Tripoli e Tobruk proponendo di costruire l’autostrada costiera, un vecchio progetto di oltre un decennio fa dell’immaginifico ma impotente Berlusconi che poi si arrese al bombardamento dell’amico Gheddafi avallato nel 2011 dall’ex presidente Napolitano.
Nell’andirivieni di ex colonialisti sulle sponde mediterranee, Erdogan ha fatto subito la voce grossa lanciando «la sfida al colonialismo moderno» ed estendendo fino al 12 settembre le esplorazioni nelle acque dell’Egeo dove è in corso la battaglia navale per il gas offshore. Lui si sente il vendicatore dei trattati di Sanremo e di Sévres del 1920: archiviare il ‘900 è un’impresa ardua, soprattutto quando il secolo passato scorre ancora nelle vene sanguinanti di popoli senza Stato, come palestinesi e curdi, e di populisti che, come Erdogan, vogliono più influenza, potere e terre altrui.
Tutto questo attivismo viene dalle coalizioni nascenti che stanno cambiando i rapporti di forza nel Mediterraneo. L’accordo tra Israele ed Emirati sta delineando un asse di alleanze di grande rilevanza. Gli Emirati e l’Arabia Saudita, con il pieno appoggio americano, sono tra i maggiori sostenitori del generale egiziano Al Sisi che ha con Israele buoni rapporti nella difesa e nell’intelligence. Questa alleanza che ha avuto il suo campo di battaglia nel sostegno al generale libico Khalifa Haftar – insieme a Russia e Francia – e ha il suo collante ideologico nel fronte comune contro i Fratelli Musulmani e in generale contro i movimenti riformisti o rivoluzionari del mondo arabo.
Ma ha soprattutto come nemico sul terreno la Turchia di Erdogan che, impadronitasi della Tripolitania, punta alla risorse energetiche del Mediterraneo orientale. Non è certo un caso che in questa coalizione anti-turca ci sia in prima istanza la Grecia, avversario storico, ma anche la Francia e Israele che hanno espresso solidarietà alle posizioni di Atene. Rafforzate dall’accordo sulle zone economiche speciali tra Grecia ed Egitto che si oppone a quello firmato dalla Turchia e dal governo Sarraj di Tripoli.
Questo asse tra potenze regionali e Israele, la Nato araba, ha come avversario, oltre alla Turchia, l’Iran, fortemente temuto proprio dalle monarchie del Golfo e dallo stesso Israele. Non dimentichiamo che l’anno è cominciato il 3 gennaio con l’assassinio da parte dell’America di Trump del generale iraniano Qassem Soleimani, colpito da un drone all’aereoporto di Baghdad, in violazione di ogni norma del diritto internazionale. Ma anche un altro episodio clamoroso va letto in questa ottica delle coalizioni nascenti: l’immane esplosione il 4 agosto al porto di Beirut. Incidente, attentato o sabotaggio che sia, possiamo misurarne in queste ore le conseguenze.
Il presidente francese Macron si trova a Beirut per negoziare con i poteri libanesi ma soprattutto con Hezbollah, il movimento sciita protetto dall’Iran e che aveva proprio nel generale Soleimani un punto di riferimento ineludibile. Le mosse di Macron possono essere lette in due modi. Il primo è che l’ex potenza coloniale vuole ridiventare protagonista, si erge a protettrice di cristiani ma riconosce il peso politico di Hezbollah. Il secondo è che il presidente francese ha bisogno di una leva mediorientale per difendere i suoi interessi nel Mediterraneo, in Libia, Nordafrica e Sahel dove ha subito lo schiaffo del colpo di stato in Mali.
La geopolitica francese può apparire esagerata ma aiuta a capire le ambizioni di Parigi e soprattutto le carenze dell’Europa. Il «coma cerebrale» della Nato, evocato proprio da Macron l’anno scorso, ha avuto un’evoluzione. Con l’accordo Emirati-Israele, siamo di fronte al varo di una coalizione politica e militare che gli Usa vorrebbero allargare ad altri stati arabi. Viene chiamata «Nato araba» perché affianca quella originale percorsa da tensioni altissime tra Grecia, Francia e Turchia nel Mediterraneo orientale. Ecco perché Macron pianta alberi in Libano, sperando che gli vada meglio che con Trump: quello interrato nel 2018 alla Casa Bianca è defunto da un anno.
Pubblicato su Il Manifesto
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