Guerra nel Mediterraneo. Le dimissioni di Sarraj, provocate dagli scontri cronici tra le fazioni e le milizie della capitale, rendono possibile ogni scenario. Ankara e Mosca vicine a un accordo
A pensare male delle dimissioni di Sarraj, il «nostro» uomo a Tripoli, si fa peccato ma a volte ci si azzecca, diceva il vecchio detto andreottiano. Russia e Turchia, secondo il ministro turco degli Esteri, sono vicine a un accordo sulla Libia. Si tratta di congelare un conflitto e spartirsi le zone di influenza, esercizio militare e diplomatico che Mosca e Ankara hanno già sperimentato Siria dove, come in Libia, sono su fronti opposti ma hanno trovato un’intesa, sia pure precaria.
I presupposti dell’accordo sono state l’altra notte – anniversario dell’impiccagione da parte degli italiani nel 1931 dell’eroe nazionale di Omar el Mukhtar – le dimissioni (assai ambigue) del premier riconosciuto dall’Onu al-Sarraj a Tripoli, capitale sotto l’ala militare protettrice di Erdogan, e la temporanea esclusione a Est, in Cirenaica, del generale Khalifa Haftar, appoggiato da Russia, Emirati, Egitto e Francia. Anche in Cirenaica il governo Al Thinni è dimissionario, a testimonianza della fragilità delle istituzioni libiche, a oriente come a occidente del Paese. Uno scenario confuso, che rende ancora più complicato il ritorno immediato dei pescatori italiani a Bengasi.
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Se si arrivasse a un’intesa tra Putin ed Erdogan in Libia, questa sarebbe una sorta di risposta all’accordo di Abramo tra Israele, Emirati e Bahrain voluto da Trump, una finta pace che serve a rafforzare un fronte anti-iraniano e anti-turco. Per Mosca si tratta di allentare la pressione degli Stati Uniti che hanno imposto sanzioni al gasdotto Nord Stream in Germania ancora prima che esplodesse il caso Navalny e la rivolta contro Lukashenko in Bielorussia.
Non avendo preso parte alla devastante caduta di Gheddafi nel 2011, avviata da Francia, Usa, Gran Bretagna e alla quale ha partecipato anche l’Italia, la Russia vuole fare della Libia una nuova base che le permetta di estendere la sua influenza al Maghreb e all’Africa subsahariana consolidando la presenza acquisita nel Mediterraneo con la guerra siriana a difesa di Bashar Al Assad. Per questo i russi hanno appoggiato con gli Emirati, l’Egitto e la Francia l’ascesa in Cirenaica di Haftar fornendo armi e mercenari tra cui la ben nota Compagnia Wagner.
Gli Emirati, protagonisti dell’accordo di Abramo, sono stati quelli che hanno investito di più sul generale in funzione anti-Fratelli Musulmani mettendo in campo i mercenari di Erik Prince, ex capo della Blackwater, anello di congiunzione tra i servizi israeliani e a Abu Dhabi.
In Libia i russi si muovono con pragmatismo e cinismo, giocando anche su più tavoli, tenendo in serbo da riciclare anche la carta Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi che negli ultimi tempi ha fatto la spola tra Zintan e Mosca. Come osserva l’ultimo numero di Le Monde diplomatique, edito in Italia dal manifesto (è in edicola per tutto il mese, ndr), la Russia ha sostenuto il vassallo Haftar ma, dosando l’intervento, ha fatto in modo che non potesse prevalere completamente. Un esempio è la presenza dei cacciabombardieri russi a Jufra dove con Sirte è stato eretto una sorta di «muro» militare russo, finanziato dagli Emirati, la «linea rossa» che le truppe turche, i mercenari di Erdogan e Tripoli non dovrebbero mai oltrepassare. Eppure, pur essendo ben presente, l’aviazione russa non è mai intervenuta per impedire la sconfitta di Haftar, cacciato da Tripoli e dall’Ovest della Libia.
In Libia, come in Siria, Russia e Turchia stanno creando le condizioni per un conflitto «congelato». Mosca quindi sta concludendo le trattative con Ankara che pur essendo in campo avverso rappresenta allo stesso tempo un partner economico e un alleato perché Erdogan è diventato il principale sabotatore sia della Nato che dell’Unione europea.
Basta guardare allo scontro tra Francia, Grecia e Turchia nel Mediterraneo orientale dove Ankara rivendica la sua quota di gas e di «Patria Blu», basandosi anche sugli accordi con Tripoli sulla delimitazione dei confini marittimi delle zone economiche esclusive. Non è un caso che ieri Erdogan abbia di nuovo attaccato Macron definendolo “ambizioso e incapace”. Uno scontro tra la grandeur francese e quella neo-ottomana in vista della discussione a Bruxelles di eventuali sanzioni europee contro Ankara. Certo un conflitto congelato non farebbe piacere a Macron che ha sabotato le iniziative diplomatiche italiane ma ora deve adattarsi al gioco russo-turco.
Sono proprio le dimissioni di Sarraj, provocate dagli scontri cronici tra le fazioni e le milizie della capitale, a rendere possibile ogni scenario. In primo luogo avverranno a ottobre nel caso si raggiungesse un accordo ai negoziati di Ginevra sotto l’egida dell’Onu – sponsorizzati dagli Usa -_ su un consiglio nazionale libico che dovrebbe varare un governo unificato e poi indire elezioni.
Questa eventualità viene esclusa dalle più qualificate fonti diplomatiche il che significa che a fine anno Sarraj potrebbe essere ancora lì, per evitare un vuoto di potere pericoloso. Insediato da noi a Tripoli quattro anni fa e militarmente da noi protetto, il periclitante Sarraj ha un destino incerto, come le carte italiane in Libia: senza mai un asso nella manica.
Pubblicato su Il Manifesto
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