Un Sistema di Governance condiviso per superare il trattato di Dublino
Oggi si attende la presentazione del piano Ursula Von der Leyen per la riforma del trattato su migrazioni e asilo. Un nuovo tentativo di modifica del regolamento in materia di politiche migratorie in Europa era stato annunciato la settimana scorsa dal numero uno della Commissione Europea, accelerando i tempi dopo il drammatico incendio nel campo profughu di Moria, in Grecia. In realtà, nel suo intervento al Parlamento Europeo ha parlato di superamento del Trattato di Dublino con un nuovo «sistema di governance» introducendo il meccanismo di solidarietà obbligatoria condivisa per «salvare vite» e al contempo ponendo l’accento sulla protezione delle frontiere esterne e rimpatri dei richiedenti non aventi diritto all’asilo.
Immediate le reazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte che ha dichiarato: «Stiamo lavorando con la Commissione a stretto contatto per il superamento del patto di Dublino. L’Italia ha lavorato molto in questa direzione perché la disciplina attuali svantaggia i Paesi di primo approdo nella gestione degli sbarchi e dei flussi migratori. L’annuncio è una svolta, adesso aspettiamo la proposta della commissione in programma mercoledì». I dettagli del piano verranno resi noti oggi dalla presidente della Commissione UE, ma con molta probabilità non sarà una passeggiata per le diverse visioni tra i Paesi dell’Unione.
Il tema, in effetti, è molto delicato e ha vissuto qualche alto e molti bassi. Sin dall’istituzione della CEE, le politiche migratorie erano lasciate a capo di ciascun paese ma fu subito dopo evidente la necessità di regolamentare questa materia in virtù dei cambiamenti geopolitici nell’area e soprattutto con la necessità dell’introduzione dell’accordo di libera circolazione (entrato in vigore nel 1993). La caduta del muro di Berlino e il crollo dell’ex URSS pose con urgenza il tema della gestione delle richieste di asilo a livello della Comunità, provenienti in maggioranza dall’Est Europa, anche per evitare domande in più Paesi.
Il Patto di Dublino
Il Trattato di Dublino viene firmato esattamente 30 anni fa (per l’Italia il Governo Andreotti VI) nella capitale irlandese dai membri della Comunità Europea (Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Regno Unito), seguiti poi da Austria, Svezia e Finlandia con l’obbiettivo di concordare delle regole comuni «sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità Europee». Entra in vigore come legge europea soltanto nel 1997, vincolante per tutti gli Stati dell’UE.
Nel 2003 subisce modifiche con il cosiddetto regolamento “Dublino II” 2003/343/CE (per l’Italia, dal Governo Berlusconi II) mentre l’ultima revisione attualmente in vigore è del 2013 “Dublino III” 2013/604/CE (per l’Italia, dal Governo Letta) che include tutti i paesi membri, tranne la Danimarca. Le disposizioni del regolamento mirano alla creazione di un sistema europeo comune di asilo (CEAS) che consenta di determinare con rapidità lo Stato membro competente. Il regolamento è suddiviso in nove capi e introduce alcune novità rispetto al precedente.
Il principio alla base della convenzione, “Stato di primo approdo”, rimane invariato, per evitare che il richiedente possa presentare la domanda in più Stati. Ciò significa che il primo Stato membro in cui viene presentata/registrata una domanda di asilo è il responsabile della richiesta, diversamente da quanto previsto nel primo trattato che rimandava al “buon senso” in considerazione del limite dei flussi e della presenza delle frontiere tra paesi europei. La maggior parte delle richieste provenivano dall’Est ed erano sostanzialmente “controllabili”. Un altro obiettivo è quello di ridurre il numero di richiedenti asilo cosiddetti “in orbita”, che sono trasportati da Stato membro a Stato membro. Altro pilastro del sistema di Dublino è l’EURODAC (European Dactyloscopie), una banca dati centrale in cui vengono registrate le generalità, con l’acquisizione delle impronte digitali, di chiunque attraversi irregolarmente le frontiere di uno Stato membro. Anche questo elemento ha dimostrato la sua fragilità di fronte alle forte ondate migratorio rendendo quasi impossibile il tracciamento dei migranti e costringendo molti paesi di frontiera a lasciar passare gli irregolari bypassando di fatto il principio di “primo Stato di approdo”.
Negli ultimi 20 anni gli scenari globali sono infatti radicalmente cambiati, in particolare in Medio Oriente e Africa, travolgendo il continente europeo. La pressione migratoria ha sostanzialmente investito i confine a sud dell’Europa, su tutte l’Italia, Malta, Grecia e Spagna proveniente dall’Africa mentre a Est dal Medio oriente (in particolare dalla Siria e Afganistan) . Fattori che hanno totalmente mutato il quadro sociopolitico internazionale, suscitando un forte dibattito sulla necessità di revisione di queste regole per fronteggiare l’emergenza. La mancanza di una solidarietà europea, spesso ostacolata da paesi nordici e successivamente da alcuni paesi dell’Est, ha lasciato l’Italia da sola, per ammissione della stessa Cancelliera Merkel, a gestire una situazione oggettivamente insostenibile, salvando migliaia di vite umane.
Le criticità del trattato
Il sistema di Dublino non è stato infatti concepito al fine di assicurare una ripartizione sostenibile delle responsabilità per i richiedenti asilo in tutta l’UE, un punto debole che è stato messo in rilievo dalla crisi attuale, denunciato da Italia, Malta, Grecia e Spagna in primis. Contrari ad ogni forma di sistema di ripartizione i paesi del gruppo di Visegrad, Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia. Anche per il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli (ECRE) e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), il sistema attuale non riesce a fornire una protezione equa, efficiente ed efficace, oltre a condurre ad una distribuzione ineguale delle richieste d’asilo tra gli Stati membri. Altre critiche al regolamento riguardano le complicazioni che causano il prolungamento e i ritardi nella presentazione delle domande di asilo, e soprattutto l’aumento della pressione sulle regioni più esposte come Italia e Grecia, spesso non in grado di accogliere tutte le richieste.
In casa Italia
Nel 2016, in piena emergenza sbarchi e centri di accoglienza al collasso, l’Italia decide di muoversi attraverso i canali diplomatici e nel febbraio 2017 viene siglato il Memorandum di intesa Italia-Libia dall’allora Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dal Primo Ministro del governo di riconciliazione nazionale libico Al-Serraj con il chiaro intento di bloccare gli sbarchi illegali verso l’Italia e contrastare il traffico esseri umani, in cambio di aiuti economici e supporto tecnico alle autorità libiche. Già nello stesso anno i dati presentati dall’allora Ministro dell’Interno Minniti avevano mostrato un forte calo degli arrivi ma allo stesso tempo vennero sollevate criticità e denunce sul drammatico destino di migliaia di profughi rimasti sostanzialmente prigionieri nelle mani dei trafficanti e delle milizie libiche. Nonostante le aspre condanne delle organizzazioni e delle agenzie internazionali per i diritti umani il 2 febbraio scorso il memorandum è stato prorogato automaticamente per altri tre anni. Un anno dopo, nel 2018, ci ha provato il nuovo governo Giallo-Verde, ma con una strategia tutta interna, approvando le controverse leggi, i cosiddetti “decreti sicurezza” voluti dall’Ex Ministro dell’Interno Salvini. Spinti da una forte propaganda si dimostrano inefficaci sul terreno, e spesso con effetti negativi, complicando ulteriormente la gestione dei migranti sul territorio, con i centri al collasso. L’ossatura dei decreti doveva garantire più rimpatri, i cosiddetti “porti chiusi” e abolizione del permesso di soggiorno per umanitari. Dati alla mano, le espulsioni non sono aumentate mentre la politica dei porti chiusi è finita nelle aule dei tribunali.
La complessità del fenomeno migratorio, complice una situazione incontrollata nella gestione dell’immigrazione irregolare con l’impennata degli sbarchi sulle coste italiane, soprattutto fino al 2018, e i record di morti in mare, la crisi del sistema di accoglienza e l’assenza di una linea europea comune a sostegno dell’Italia pongono inevitabilmente importanti sfide. La questione esiste e obbliga a profondi interrogativi che non possono essere ignorati lasciando sulle spalle dei singoli paesi di confine, Italia su tutti, il peso della gestione dei flussi. Il tema ha così investito l’opinione pubblica italiana, già severamente colpita da incertezze economiche e da ingiustizie sociali. In questa cornice la divisione politica e la strumentalizzazione da una parte e la ricerca del consenso a tutti i costi dall’altra hanno trasformato la questione nell’oggetto di conversazione pubblica quotidiana e nelle trasmissioni televisive esacerbando la crisi sociale e alimentando, talvolta ,le ingiustificate paure nel cittadino. Diverse indagini hanno in effetti evidenziato come il 36% degli italiani ritiene che gli stranieri nel nostro paese siano addirittura 20 milioni, mentre in realtà sono appena 5.3 milioni.
Il precedente europeo
Per fronteggiare la crisi a livello dell’Unione Europea nel 2017 il Parlamento Europeo aveva approvato un riforma sul trattato intervenendo sul nodo della discordia, paese di primo approdo, sostituendolo con un meccanismo di ripartizione obbligatorio dei richiedenti asilo fra gli Stati dell’Unione, ma che naufragò miseramente per l’opposizione del Consiglio Europeo, soprattutto per colpa dei paesi Visegrad guidati dall’Ungheria di Orban.
Ma come si è espressa la posizione italiana? La modifica, invocata da molto tempo, rappresentava effettivamente un vantaggio non indifferente per l’Italia, Grecia e Malta. Alla votazione finale al Parlamento Europeo l’Italia si presenta divisa, con la Lega che si astenne e il M5S che votò contro, mentre il Partito Democratico e Forza Italia votarono a favore.
E mentre i Paesi europei continuano a non trovare una posizione comune, a livello umanitario la situazione resta molto grave. Ed è di pochi giorni fa, il 10 settembre scorso, la notizia dello scoppio di un vastissimo incendio che ha devastato gran parte delle baraccopoli del campo di Moria, Lesbo, dove sono ammassati decine di migliaia di migranti.
Longeve dittature, passando per le cosiddette “primavere arabe” e lo scoppio delle guerre, in particolare Iraq, Siria, Libia, Yemen, il terrorismo feroce dell’ISIS e dei suoi affiliati, che ha costretto alla fuga migliaia di siriani attraverso la via balcanica, e l’instabilità afgana hanno travolto in primis i paesi vicini, come la Giordania, il Libano e la Turchia, e poi l’Europa. Il Libano è il Paese che al mondo ospita più rifugiati in rapporto alla sua popolazione, con quasi 1,5 milioni di profughi registrati ufficialmente dall’UNHCR, mentre la Giordania ospita quasi 3 milioni di profughi, di cui 1,3 milioni siriani. La Turchia, impegnata in molti fronti politici e militari nell’area, ed in forte tensione con l’UE, ha ricevuto un forte impegno economico dall’UE per far fronte ai 3,6 milioni di profughi rifugiati che ospita Ankara secondo il Ministero degli Interni turco.
Con il crollo del regime di Geddafi la Libia (e i suoi 1 770 km di costa) si è trasformata in una della più grandi vie di fuga verso l’Italia e la Grecia. Per molti osservatori è l’Eldorado dei trafficanti di esseri umani, con un giro di affari stratosferici. L’intervento politico-militare esterno di molte potenze regionali e non ha complicato ulteriormente la situazione, mentre piovono critiche, reportage e denunce sullo stato dei migliaia di rifugiati ammassati nei diversi “campi”, gestiti dall’ONU ma in mano alle milizie, in attesa di salpare in Europa.
Il ritorno alla stabilità libica, con un governo forte e condiviso dalle parti in conflitto, rimane una condizione indispensabile per la stabilità della regione, ma non potrà essere risolutivo. C’è ancora la questione degli ormai failed states come Siria, Iraq, Yemen e le tensioni regionali. Il processo migratorio nel mondo, causato dalla povertà, sfruttamento delle risorse, guerre, dittature e cambiamento climatico, resterà una delle più grandi sfide per il mondo e che richiederà nuovi paradigmi e nuove regole chiare, a partire dall’Europa stessa.
PHOTO: JOHN THYS / AFP
Abdessamad El Jaouzi
Ricercatore indipendente, esperto in cooperazione economica internazionale
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