L’Azerbaigian ha sconfitto gli armeni del Nagorno-Karabakh con un’operazione militare condotta il 19 settembre, dopo 31 anni di occupazione locale non riconosciuta a livello internazionale. Quella che può essere definita una resa a tutti gli effetti, prevede il disarmo delle forze armate armene del Nagorno-Karabakh e lo scioglimento dei suoi organismi politici e istituzionali.
Per dare una definizione, i conflitti congelati sono quelle ostilità che scoppiano a causa di richieste di indipendenza rivendicate da parte di regioni o popolazioni (più spesso minoranze etniche); solitamente tutte le parti in causa, esplicitamente o meno, sono appoggiate da potenze straniere con interessi geopolitici; lo Stato originario perde così il controllo della regione che si autoproclama indipendente e che, tuttavia, viene riconosciuta solo da alcuni Stati della comunità internazionale.
La Russia non è intervenuta in quest’ultima offensiva dell’Azerbaigian, e ciò stride con la sua geopolitica dei “conflitti congelati” (talvolta anche ereditati) che Mosca ha posto in essere a partire dagli anni Novanta nello spazio post-sovietico, in specie nel Caucaso meridionale e in Moldavia. Dopo il crollo dell’Urss, il Cremlino cedette il Nagorno-Karabakh alla parte armena, assecondando molte operazioni di pulizia etnica contro la popolazione azera. Queste azioni servivano a fomentare inimicizia tra i due popoli e a far sopravvivere l’idea di uno spazio post-sovietico (per ricostruirlo). Nel Caucaso, se la Russia doveva scegliere da che parte stare nel conflitto tra Armenia e Azerbaigian, di solito non prediligeva uno dei due Stati ma il conflitto in sé, inteso come un’opzione politica.
La destabilizzazione è la chiave di ogni azione in una guerra ibrida
La geopolitica della Russia nel conflitto armeno-azerbaigiano si è fondata sulla scelta di non scegliere, modulando di volta in volta il proprio ruolo, quale potenza regionale mediatrice, alleato, fornitore di armi, Stato terrorista (oggi lo è ufficialmente anche per il Parlamento dell’Unione Europea). Negli ultimi anni, l’Azerbaigian ha ampliato le sue relazioni anche con la Russia, ad esempio acquistando armi. Secondo le stime del Sipri, la Russia è ancora oggi la principale venditrice di armi sia all’Armenia che all’Azerbaigian. Mosca, poi, si è posta quale garante del cessate il fuoco del 2020 e ciò ha favorito il consolidamento dei suoi servizi segreti in tutta l’area, al fine di controllare tutti gli snodi infrastrutturali strategici, delle comunicazioni e dei transiti energetici.
Nell’autunno scorso, una fonte qualificata ha affermato che «l’intelligence russa può utilizzare relazioni già sviluppate con l’intelligence azera, che sono state rafforzate durante tutto il 2022». Per la prima volta, forse a eccezione della guerra con la Cecenia, la Russia si è schierata a fianco di uno Stato originario (l’Azerbaigian), abbandonando lo Stato secessionista (l’Armenia). Putin sta forse mettendo fine ai conflitti congelati? Pur essendo il vincitore di fatto della Seconda Guerra del Karabakh, la mossa della Russia rispetto ad Armenia e Azerbaigian sembra più che altro una ritirata strategica, dettata dalla necessità di rafforzare i rapporti con Turchia e Iran.
La guerra in Ucraina ha portato la Russia ad avvicinarsi a Turchia e Azerbaigian, perché la connessione all’Iran e all’Asia meridionale – attraverso l’Azerbaigian – adesso è diventata prioritaria. Il recente accordo da 1,6 miliardi di dollari tra Iran e Russia per costruire la ferrovia Rasht-Astara lunga 162 km rappresenta un punto di svolta geopolitico. Tecnicamente, esso dovrebbe coniugare gli sguardi a oriente della Russia e dell’Iran, attraverso accordi bilaterali già siglati. Rasht è vicino al Mar Caspio, mentre Astara è al confine con l’Azerbaigian: la loro connessione sarà parte integrante di un accordo Russia-Iran-Azerbaigian per il trasporto ferroviario e merci, consolidando l’Instc (International North-South Transport Corridor) quale collegamento tra l’Asia meridionale e il Nord Europa. L’Instc avanza attraverso tre rotte fondamentali: quella occidentale che collega Russia-Azerbaigian-Iran-India; quella transcaspica che collega Russia-Iran-India; quella orientale che collega Russia-Asia centrale-Iran India.
Un altro esempio è la ferrovia Baku-Tbilisi-Kars, inaugurata nel 2018, che è un elemento-chiave nel piano generale della Turchia di Erdogan per configurarsi come un hub strategico per il trasporto di container dalla Cina all’Europa. E su questo dovremmo riflettere. Poi c’è il noto “Corridoio di Zangezur”, che idealmente unisce l’Azerbaigian alla Turchia passando per l’Armenia, che era ed è uno snodo su cui Unione Europea e Regno Unito hanno iniziato a ragionare sin dal cessate il fuoco del 2020 in Nagorno-Karabakh. Eppure, nel novembre 2020, nell’accordo a tre con Armenia e Azerbaigian si prevedeva la supervisione dei servizi segreti russi sulla logistica che collegherebbe l’Azerbaigian continentale alla Turchia, attraverso il territorio armeno e l’enclave azera di Nakhchivan. Questo progetto, se realizzato, darebbe alla Turchia una proiezione geopolitica fin sul Mar Caspio. E toglierebbe all’Armenia il confine con l’Iran, suo storico alleato che guarda infatti con preoccupazione a tale prospettiva. La supervisione del Corridoio di Zangezur consentirebbe alla Russia di mantenere il controllo sulla connettività turco-azerbaigiana, e, paradossalmente, di promuovere un’alternativa alla sua stessa «Via del Nord», che ora è impraticabile a causa delle sanzioni occidentali. Ma non è ancora sicuro se questa linea di transito attraverserà l’Iran o l’Armenia e ciò dipende dal fatto che Teheran accusa il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, di appoggiare Israele, mentre Baku addita Teheran di sostenere l’Armenia. Resta il fatto che più il conflitto si è «scongelato», più Russia e Azerbaigian si sono avvicinati.
Tra le poche cose certe di questo intreccio, c’è che la perdita del Nagorno-Karabakh sta a indicare il declino a lungo termine dell’influenza russa sull’Armenia, e ancor di più sull’Azerbaigian, anche se è molto probabile che la guerra ibrida di Putin nel Caucaso non sia affatto terminata. L’Armenia è a un bivio perché resta dipendente dalla Russia in molti settori strategici della sua economia, al punto da poter essere trascinata di nuovo in qualsiasi progetto russo; però, al tempo stesso, sta sviluppando un riavvicinamento agli Stati Uniti di Biden.
Il Dipartimento di Stato americano, attraverso il portavoce Matthew Miller, ha osservato che il governo degli Stati Uniti, pur prendendo sul serio le accuse di pulizia etnica, genocidio o altre atrocità connesse all’attuale situazione in Nagorno-Karabakh, non parlerà di pulizia etnica fino a quando non ci saranno «prove». E ad ora non sembrano essercene, come afferma anche il senatore Giulio Terzi di Sant’Agata: «Si noti come dal rapporto reso dalla missione di osservatori ed esperti dell’Onu non siano emerse prove, testimonianze o anche semplici indizi di distruzioni sistematiche di culture, né di violenze riconducibili a pulizie etniche di cui Baku è stata in queste settimane accusata o sospettata da alcune parti».
Peraltro, in Azerbaigian si ritiene che l’Europa non sia coerente in materia di diritti umani, non essendo riuscita a tutelare gli azeri quando furono sfollati dal Nagorno Karabakh e l’Armenia ne prese per la prima volta il controllo con la Prima guerra del Karabakh (1988-94) che coincise con la dissoluzione dell’Urss. In conclusione, la nuova situazione geopolitica indica che quest’area verrà presidiata da molti più Stati rispetto al passato, con interessi diversificati e connettività tra loro alternative, senza la chiara regia, almeno per il momento, di un’unica potenza regionale o globale.
E questo richiama però la possibilità di nuovi conflitti, anche perché Stati Uniti e Cina sono in competizione nella nuova Guerra Fredda che le vede duellare pure in questo territorio di congiunzione tra Asia ed Europa.
Marco Rota
Consulente strategico e analista delle Relazioni Internazionali
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