«La risposta di Israele all’attacco di Hamas da Gaza cambierà il Medio Oriente» ha dichiarato il premier Benjamin Netanyahu incontrando i sindaci delle cittadine israeliane a ridosso della Striscia. Dunque, prepariamoci alla guerra a oltranza. E all’ipotesi che la Striscia di Gaza, già adesso cinta d’assedio dalle forze armate di Gerusalemme, non sia più la stessa in un futuro prossimo.
E questo non soltanto perché la qualità operativa dell’ultimo attacco terroristico di Hamas in territorio israeliano non ha precedenti nella storia, ma perché una simile minaccia «costringe» di fatto Israele a rispondere in una maniera altrettanto inedita. E incita, anzi legittima il governo Netanyahu a tentare di «porre fine una volta per tutte» allo strapotere di Hamas nella regione.
Anche perché Hamas si è politicamente suicidata con questa vergognosa sortita terroristica, determinando la sua fine prematura proprio nel momento in cui intendeva dimostrare di avere ancora la forza di contrastare il nemico: poteva ad esempio compiere un blitz militare mirando ai soldati israeliani e occupare caserme come «legittimi obiettivi» in un contesto di guerra, e invece se l’è presa vigliaccamente con i civili, rapendo e uccidendo giovani hippies e anziane signore, con ciò indignando il mondo intero – mondo arabo compreso, in forte imbarazzo in queste ore – proprio per lo squallore di queste azioni.
Hamas è condannata
La leadership di Hamas, sorprendendo gli israeliani in modo così clamoroso, avrebbe potuto sfruttare il momento per chiamare all’insurrezione gli «oppressi» della West Bank e gli «amici» di Hezbollah nel Libano del Sud, che rispondendo alla chiamata avrebbero magari còlto l’occasione di infliggere dure perdite a Israele nel suo momento di maggior debolezza: «Siamo in un contesto di resistenza militare, di guerra patriottica, di lotta per l’indipendenza» si sarebbero giustificati. E chissà che non si sarebbe aperta una guerra regionale, forse anche con l’aiuto dell’Iran e della Siria, per regolare definitivamente i conti in Medio Oriente.
Invece, con la sua condotta inqualificabile, indegna della più scarsa organizzazione paramilitare, Hamas è scesa definitivamente al livello dell’Isis, anzi dei jihadisti cialtroni del Bataclan; e ha di conseguenza gettato al vento la sola opportunità che aveva di ipotecare un successo militare e di provare a coalizzare i nemici di Israele.
La riprova che la leadership di Hamas si sia scavata la fossa da sola è economica: sono riusciti persino a far sì che l’Unione Europea, mai tenera con Israele, gli abbia bloccato per la prima volta aiuti economici per un valore fino a 1,177 miliardi di euro di sostegno finanziario da qui al 2024: Hamas non potrà più disporre di aiuti da nessuno fuori dalla cerchia ristretta delle sue alleanze. E il fatto di non aver ricevuto alcun sostegno ufficiale sinora da parte di Hezbollah o di Teheran, già la dice lunga sull’isolamento cui l’organizzazione si è condannata.
Pensare che quando nel 2006 il soldato israeliano Gilad Shalit fu fatto prigioniero da un commando palestinese, Hamas come contropartita ottenne da Gerusalemme la liberazione di mille palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Mille uomini per un unico soldato. Un successo insperato. Simili concessioni avrebbe potuto ottenerle anche in quest’occasione, se non avesse scelto di colpire la popolazione civile. Invece, a causa del brutale assalto di sabato 7 ottobre, Hamas otterrà solo sangue e la completa distruzione della sua struttura.
Cosa succede adesso
Israele entrerà a Gaza per rimanervi fino a che non avrà smantellato anche l’ultima delle pedine di Hamas, e forse si spingerà a occupare sine die l’intera Striscia, chiedendo alla popolazione civile di abbandonare l’area; in caso contrario, chi resta potrà essere dichiarato complice. E lo farà anche se questo dovesse costare la vita degli oltre duecento ostaggi detenuti dai terroristi.
Vale qui la pena ricordare come in Israele vi sia una sorta di dogma assoluto al centro del patto sociale tra Stato e cittadini: qualsiasi colore sia il governo, esso farà di tutto pur di preservare la vita di ogni singolo connazionale. In passato, gli israeliani hanno liberato centinaia di prigionieri anche solo per recuperare il cadavere di un soldato. E ancora oggi brigano per riottenere le spoglie della spia Eli Cohen, giustiziato dai siriani nel lontano 1965. Israele non dimentica.
Se le emozioni sono certamente forti e l’orrore di quanto osservato in questo weekend di sangue è sotto gli occhi di tutti, vale la pena ricordare come la sortita di Hamas – designato come terrorista oltre che da Israele anche da Ue, Usa, Canada e Giappone – s’inserisca comunque in una lunga e nota serie di episodi. In simili occasioni, come l’assalto di sabato 7 ottobre, il giornalismo main stream tende a dimenticare un po’ troppo in fretta che, ciclicamente e per oltre un decennio, si è già assistito a queste esplosioni di violenza intorno a Gaza: quasi una ogni quattro anni.
Come ha commentato Gerard Araud, Ambasciatore di Francia in Israele e negli Stati Uniti, e rappresentante permanente della Francia all’Onu, «si è da tempo stabilita una sorta di regolarità della tragedia: un attacco più o meno efficace da parte di Hamas; una risposta pesante da parte degli israeliani e poi, dopo un po’, una mediazione, di solito egiziana, per negoziare un cessate il fuoco fino alla successiva esplosione».
Il fatto che ci siano duecento ostaggi israeliani a Gaza crea certo un dilemma senza precedenti da parte dell’esercito e di Netanyahu stesso: si può agire con fermezza, come sopra ipotizzato, rischiando di mettere in pericolo la vita di questi numerosi ostaggi – che senza dubbio saranno usati come scudi umani – in nome di un bene superiore? O è meglio procedere nel solco delle precedenti risposte militari? Come l’offensiva di terra nel 2009 in risposta all’escalation di Gaza cominciata nel 2008, poi rientrata; l’Operazione Protective Edge del 2014 in risposta alla presa in ostaggio e all’omicidio di tre giovani israeliani in Cisgiordania, più incisiva ma anch’essa rientrata; gli scontri tra Gaza e Israele del novembre 2018 «risolti» con un cessate il fuoco mediato dagli egiziani.
Ciò che deciderà di fare il governo di Bibi Netanyahu è solo apparentemente una grande incognita, perché sul tavolo vi sono già tutti gli elementi per marcare una discontinuità rispetto al passato. I dubbi del premier restano, ma la necessità di proteggere lo Stato e il popolo israeliano con ogni probabilità prevarrà su qualsiasi altro calcolo.
Considerazioni finali
Fino alla scorsa settimana, nei circoli diplomatici e persino nel mondo delle intelligence occidentali (ma non solo) girava insistente la solita frase: «L’interesse per la causa palestinese è diventato talmente basso a livello internazionale che ormai in pratica non esiste più».
I motivi della «fine della questione palestinese» secondo gli stessi israeliani? Primo, l’argomento ha stancato persino i Paesi arabi che da sempre l’hanno sostenuta, e che ora vogliono un dialogo con Gerusalemme. Secondo, dopo il Covid Israele è sempre più un punto di riferimento imprescindibile in ambito tecnologico, sanitario, energetico. Terzo, l’Iran è il vero grande problema di Israele. Quarto, i palestinesi stessi vogliono uscire dal ricatto dell’estremismo politico, considerato anche che a decine di migliaia lavorano ogni giorno per gli israeliani e nessuno di loro – anzi, proprio nessuno – crede più alla «two state solution».
L’inizio dell’operazione cosiddetta «Alluvione Al Aqsa» non smentisce quanto sopra, anzi: è proprio la reazione a questa condizione di isolamento e ininfluenza ad aver convinto la leadership di Hamas ad agire, forzando la mano in quella barbara maniera. Ma adesso, in assenza di finanziamenti e supporto da parte del mondo occidentale e arabo, in ragione della freddezza di Teheran e di Hezbollah, e a causa del riposizionamento dei governi un tempo amici della Palestina, non solo lo scopo di Hamas scompare, ma anche il mezzo scelto per la lotta pone le premesse perché la Striscia di Gaza per come l’abbiamo conosciuta diventi solo un ricordo. In ogni caso, vada come vada, l’ipotesi della soluzione a due Stati per Palestina e Israele è tramontata per sempre.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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