Con la scomparsa di Henry Kissinger se ne va forse l’ultimo frutto della Germania di Weimar, arrivato negli Stati Uniti a New York a 15 anni con la sua famiglia ebrea tedesca mentre l’Europa si autodistruggeva. Arruolato nell’esercito americano e divenuto cittadino naturalizzato nel 1943, il sergente Kissinger prestò servizio nel teatro europeo e, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ricoprì un incarico amministrativo di alto livello nella Germania occupata.
Kissinger non ha mai cessato di pensare in tedesco, pur esprimendosi in un raffinato inglese di diplomazia letteraria. Ha toccato i vertici della politica globale, assumendo negli Stati Uniti, con la carica di segretario di Stato e di national security advisor, il massimo del potere avvicinabile per chi non sia effettivamente presidente degli Stati Uniti.
Ha svolto nell’esercizio delle sue funzioni un ruolo cardinale nell’apertura delle relazioni con la Cina, favorendo la distensione con l’Unione Sovietica (per tenerla separata da Pechino), aiutando lo Stato d’Israele e mettendo fine al conflitto in Vietnam, opera che gli valse il Premio Nobel per la Pace nel 1973. È stato per decenni il centro motore dell’anticomunismo mondiale, ma anche un protagonista durante la guerra dello Yom Kippur del 1973 e affrontando l’embargo petrolifero dell’Opec.
Per di più, scriveva e assumeva col passare degli anni la veste di storico. Tucidideo per la sua netta articolazione di pensiero permeato da guerra e diplomazia; svetoniano per la ricercatezza nel cogliere dettagli mai fini a se stessi.
Prevalse magistralmente il lato tucidideo e la sua volontà negli ultimi anni di eludere la trappola che «Pechino-Atene», la potenza in ascesa (in verità, più l’Atene di allora che l’attuale Pechino), poneva a «Washington-Sparta», la potenza che rimane padrona del cielo e del mare.
Chi vivrà questo nuovo conflitto potrà anche dare, ex post factum, un giudizio più pacato su ciò che ha rappresentato nella temperie del XX secolo. Kissinger ha sostenuto che la miglior guida per l’arte di governare fosse la Storia, coniugata con l’intuizione. Strumenti che pochi oggi sembrano possedere.
Come ha detto Patrick J. Garrity «Kissinger riteneva che la sua diplomazia – in particolare l’apertura alla Cina, l’espulsione dei sovietici dal Medio Oriente e la sconfitta politica delle forze su entrambe le sponde dell’Atlantico, che avrebbero separato gli Stati Uniti dall’Europa – creò le basi per il trionfo di Ronald Reagan».
Recentemente, aveva chiari i rischi della nuova e ormai definita Guerra Fredda tra Stati Uniti e Cina (spesso evocando il pericolo della guerra atomica e dell’uso errato dell’Intelligenza Artificiale), ma non come mitigarli o ricondurli ad un compromesso. Kissinger disse pochi mesi fa: «Osservando il quadro più ampio della storia e la crescente polarizzazione odierna, è difficile essere ottimisti». Di qui l’impotenza kissingeriana, passata dal vaglio del tempo, dal Congresso di Vienna, dall’equilibrio europeo, fino alle elusive seduzioni degli stratagemmi cinesi.
Marco Rota
Consulente strategico e analista delle Relazioni Internazionali
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