Nell’agosto del 2016 Il premier giapponese Abe Shinzō nei panni di Super Mario salutava il pubblico di tutto il mondo alla cerimonia di chiusura dell’Olimpiade di Rio. Fu un tripudio di soft power. Ma nessuno avrebbe potuto immaginare che, quattro anni dopo, i tanto attesi Giochi di Tokyo, fortemente voluti da Abe, sarebbero saltati a causa di una pandemia. Eppure, è accaduto, lasciando il premier privo di quel successo che avrebbe potuto segnare positivamente il suo lascito alla guida del Giappone.
Abe si è dimesso appena pochi giorni dopo aver raggiunto il record di primo ministro giapponese più longevo, un anno prima rispetto alla naturale scadenza del mandato. Dopo quasi otto anni al governo, non è riuscito tuttavia a realizzare gli obiettivi principali che si era fissato, primo tra tutti la riforma della Costituzione pacifista imposta ai giapponesi durante l’occupazione americana nel post Seconda Guerra Mondiale. Così, è andata a monte la modifica della clausola contenuta nell’Articolo 9 che vieta a Tokyo di avere forze con capacità offensive, una modifica che non ha mai trovato grande sostegno da parte dell’opinione pubblica. L’eredità politica di Abe resta materia di dibattito, il primo ministro cede al prossimo premier un Giappone ancora ostaggio del nuovo coronavirus, in recessione economica ma con rapporti più stabili con la Cina e certamente migliori con i Paesi del Sudest asiatico. La prova del miglioramento dei rapporti tra Tokyo e Pechino è la visita prevista per lo scorso aprile di Xi Jinping in Giappone, poi annullata a causa del coronavirus.
Abe Shinzō era diventato il più giovane ministro della storia del Giappone quando a 52 anni fu eletto successore di Koizumi. Esponente di famiglie di politici di alto rango, sia da parte paterna che materna, nel 1993 fece il suo debutto in politica collezionando incarichi sempre più importanti, fino all’elezione di presidente del partito liberaldemocratico. Nel 2007 la stessa rettocolite ulcerosa che lo ha portato a lasciare definitivamente l’incarico a fine agosto 2020 lo aveva già costretto ad abbandonare prima del previsto la carica di premier. Sul fronte interno, il gabinetto Abe viene associato all’ “Abenomics”, una ricetta macroeconomica nata nel 2013 per risanare l’economia nipponica dopo decenni di stagnazione e basata su tre pilastri: forti stimoli monetari, aumento della spesa pubblica e riforme strutturali. Lo scopo era stimolare i consumi e guadagnare la fiducia degli investitori, riformando anche il mercato del lavoro, un obiettivo, quest’ultimo, certamente mancato. Come risultano falliti i tentativi di combattere la deflazione e l’invecchiamento della popolazione. Ma è anche vero che Abe ha assicurato ai giapponesi una certa stabilità, equa distribuzione del reddito e bassi tassi di disoccupazione, contribuendo al superamento – sulla scia del suo predecessore – del “decennio perduto” degli anni Novanta successivo allo scoppio della bolla speculativa. Tuttavia, il Giappone resta un Paese inospitale per i lavoratori stranieri, tanto che non è troppo azzardato definire razzista. Un elemento questo che non favorisce la crescita economica.
Non va meglio neanche per la cosiddetta “Womenomics”, la strategia che avrebbe fatto del Giappone un luogo in cui “le donne potessero splendere”. Secondo la classifica del World Economic Forum, l’arcipelago è al 121esimo posto su 153 Paesi quanto a parità di genere, la peggiore performance tra le economie dei G7. Abe, nazionalista e conservatore, ha cercato un equilibrio tra l’ala più centrista e quella più a destra del partito liberaldemocratico. Guardato con grande sospetto dai paesi vicini per il revisionismo e il marcato militarismo, che riporta in auge la pesante esperienza della Seconda Guerra Mondiale, è tuttavia sul piano internazionale che Abe raccoglie forse i risultati migliori, qualificandosi come promotore del multilateralismo. Con qualcuno che si spinge a dire che se l’imprevedibile presidente Usa non ha ingaggiato una guerra commerciale anche con il maggiore alleato di Washington nel Pacifico, è solo merito del rapporto personale istaurato da Abe con lo stesso Trump, rapporto maturato sui verdi campi da golf. Nonostante i cattivi rapporti con Seul, le questioni irrisolte relative all’occupazione nipponica della Corea, quella delle isole contese con Russia e Cina e l’incapacità di intervenire nel negoziato con la Corea del Nord, la visione di Abe di un Indo-Pacifico libero e aperto in funzione anti-cinese ha trovato il sostegno di Stati Uniti, Australia e India. Dopo l’uscita di Washington dal TPP nel 2016, il Giappone ha sottoscritto un accordo di libero scambio con l’UE ed è sul punto di fare lo stesso con il Regno Unito.
Pubblicato su Il Mattino
Erminia Voccia
Giornalista professionista, campana, classe 1986, collabora con Il Mattino di Napoli. Laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università “L’Orientale” di Napoli. Master in giornalismo e giornalismo radiotelevisivo presso Eidos di Roma. Appassionata di Asia.
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