Garantire la pace fra due popoli che avrebbero dovuto essere fratelli e invece sono stati in lotta per oltre mezzo secolo, basta e avanza per meritare un Nobel. E’ soprattutto per questo che il comitato di Oslo ha premiato Abiy Ahmed Alì, il primo ministro dell’Etiopia che ha raggiunto una pace apparentemente definitiva con l’Eritrea, lottando contro le incrostazioni della storia, le resistenze del leader avversario Isaias Afewerki e di molti generali etiopi che con la guerra avevano fatto carriera e conquistato potere.
La commissione norvegese ha avuto coraggio nello scegliere una persona che non rientrava nella lista dei candidati più probabili. Ha avuto anche il coraggio di premiare un leader di un continente che sta vivendo una lunga fase di stagnazione: di guerre endemiche, governi che non fanno riforme, crescite economiche piatte o non sostenibili, giovani che emigrano. L’anno scorso il Nobel era andato a un altro africano: Denis Mukwege, il medico congolese specializzatosi nella cura delle donne vittime di stupro. Ma si era voluto riconoscere i meriti di chi si dedica a riparare i danni e i crimini provocati da coloro che governano il continente. Quest’anno invece è stato scelto un uomo di potere, un primo ministro.
E’ questa la seconda ragione del premio ad Ahmed Alì, importante quanto la pace con l’Eritrea. Il premier etiope è un riformatore, sta rafforzando la democrazia nel suo paese; sta cercando di sfruttarne equamente le risorse economiche; tenta di sfuggire all’infernale gabbia tribale che vanifica il futuro dell’Africa: un continente dilaniato da conflitti etnici endemici soprattutto a causa delle frontiere nazionali disegnate dagli interessi coloniali europei, a partire dal 1884.
Il comitato norvegese del Nobel ha dato una terza prova di coraggio decidendo anche di non attribuire il riconoscimento ad Afewerki. Per raggiungere un accordo di pace bisogna essere in due ma non sempre fra i due c’è la stessa volontà di arrivarvi. O accade che nel cammino per raggiungere la pace, uno o entrambi si siano macchiati di crimini incompatibili con il Nobel. Oppure che il risultato delle paci raggiunte non meritino il premio.
Nel 1926 il francese Aristide Briand e il tedesco Gustav Streseman presero il Nobel per aver promosso la pace di Locarno nella quale gli europei giurarono di non farsi mai più la guerra. È noto cosa sia accaduto fra il 1939 e il ’45. Nel 1973 toccò a Henry Kissinger e Le Duc Tho per una pace che il Vietnam avrebbe visto solo un anno dopo; nel ’78 fu la volta di Anwar Sadat e Menahem Begin: il Nobel lo presero entrambi ma fu l’egiziano a volere la pace più dell’israeliano; gli israeliani Yitzhak Rabin e Shimon Peres e il palestinese Yasser Arafat vinsero nel 1994 per un accordo che non ha mai visto davvero la luce.
Dare il Nobel a un politico è sempre rischioso. Anche quando lo merita, la sua costruzione di pace non sempre regge alle intemperie del tempo e della geopolitica. Ma è comunque stato saggio premiare la grande volontà di Ahmed Ali e non l’ambiguità di Afewerki il cui paese continua a vivere nella mobilitazione permanente di una rivoluzione senza fine. L’eritreo ha percorso lo stesso cammino della gran parte dei leader africani: la coraggiosa lotta di liberazione durata un trentennio, il potere a vita, la dittatura. Come Robert Mugabe nello Zimbabwe.
Ahmed Ali lavora per dare un orizzonte ai giovani etiopi. L’orizzonte dei ragazzi eritrei è quello del Mar Mediterraneo attraversato su un gommone semi-sgonfio, nella speranza che prima dell’affondamento si stagli l’isola di Lampedusa. Per questo Abiy Ahmed Alì meriterebbe anche un premio dall’Unione Europea per la cosa più utile che possa essere fatta per fermare le migrazioni: governare bene il suo paese. Lavorando per l’Africa Alì aiuta anche noi.
Pubblicato nelll’inserto culturale del Sole 24 Ore
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