«Sappiamo – ha dichiarato il generale delle forze curde Mazloum Abdi – che dovremmo scendere a compromessi dolorosi con Mosca e con Assad se decidessimo di allearci con loro. Ma se dobbiamo scegliere tra un compromesso e il genocidio della nostra gente, sicuramente sceglieremmo la vita del nostro popolo». C’è soprattutto pragmatismo, realpolitik, in questo commento del generale all’accordo stipulato dai curdi siriani con il regime di Damasco nella notte tra il 13 e 14 ottobre. Un accordo dai contorni sfumati, che non chiarisce lo spazio nel quale si potrà ragionare di una futura autonomia del Kurdistan siriano, il Rojava. O se in qualche modo tratti i diritti dei curdi in Siria. Secondo indiscrezioni, l’accordo avrebbe previsto lo scioglimento delle FDS. Il Partito dell’Unione Democratica (PYD) curdo è stato tuttavia costretto a raggiungere questa intesa con Assad da una posizione di debolezza, con l’esercito di Ankara che avanza sul confine turco-siriano.
A poco più di una settimana dall’annuncio del ritiro delle forze statunitensi nel nord del Paese, l’accordo porta le forze di Damasco a difesa della zona di confine con la Turchia. I curdi, dalle parole di Abdi, non sembrano fidarsi completamente di Mosca e Assad. Già nel 2018, d’altronde, la scelta della Russia di abbandonare le posizioni nell’enclave di Afrin aveva permesso all’Operazione Ramo d’Ulivo della Turchia di occupare quell’area fino ad allora in mano ai curdi. Il Cremlino mantiene comunque la sua posizione di attore dominante della crisi siriana. È la leadership che si è conquistata a partire dell’intervento del 2015 a sostegno del regime di Bashar Al Assad. Mosca parla con tutti, nei contorni di questo conflitto, e tutti devono parlare con Mosca. È un ruolo che Vladimir Putin sta provando a conquistarsi crisi dopo crisi in tutto il Medio Oriente: ieri era in visita in Arabia Saudita dal principe ereditario Mohammed Bin Salman.
Damasco intanto ipotizza una quasi riunificazione dopo lo scoppio della guerra civile nel 2011 anche se il nord-ovest, nell’area di Idlib, è ancora occupato da ribelli e jihadisti. Grazie all’accordo, per la prima volta i soldati lealisti hanno rimesso piede a Manbij e Kobane, nell’area diventata Rojava a partire dal 2012. Certo è che quando ci sono i curdi di mezzo, Siria e Turchia arrivano facilmente ai ferri corti. Nel 1998, in seguito alle dispute sulla regione dell’Hatay e sulla costruzione di dighe sul fiume Eufrate, Ankara schierò le sue truppe sugli 800 chilometri di confine. Si arrivò così alla firma dell’accordo di Adana che prevedeva la normalizzazione dei rapporti tra i Paesi e la fine del sostegno siriano al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), considerato da Turchia, Unione Europea e Stati Uniti un’organizzazione terroristica. In Siria, per anni, si era rifugiato anche Adbullah Ocalan fondatore del PKK dal 1999 detenuto in una prigione di massima sicurezza sull’isola turca di Imrali.
Se la riunificazione della Siria dovesse prendere forma, a completare il suo piano sarebbe anche l’Iran, che vedrebbe finalmente compiuta la Mezzaluna di influenza sciita fino in Libano, alla quale lavora da anni. Sull’azione del presidente turco Recep Tayyp Erdogan pesano invece l’alleanza di governo con i nazionalisti – che premevano da tempo per l’azione militare contro i curdi del Rojava – e le crescenti tensioni interne alla società dovute ai quasi tre milioni di profughi siriani.
Sul campo, nel frattempo sono stati interrotti gli aiuti umanitari e molte Ong internazionali si sono ritirate. Secondo le Nazioni Unite, gli sfollati sarebbero 130mila. Secondo fonti dell’organizzazione della Mezzaluna Rossa del Kurdistan (KRC), invece, gli sfollati sarebbero quasi 250mila, 75 i caduti accertati, 450 i feriti, tra cui 165 gravi. Non è chiaro quanti jihadisti dello Stato Islamico detenuti dalle FDS prima dell’abbandono americano siano riusciti a fuggire dalle carceri curde. Gli Stati Uniti minacciano sanzioni alla Turchia, in particolare al settore dell’acciaio e ai ministeri della Difesa e dell’Energia. E mentre mille truppe abbandonano il nord della Siria «intenibile», il vice-presidente Mike Pence vola ad Ankara per colloqui sull’offensiva. Inghilterra, Germania, Francia, Svezia, Norvegia e Olanda hanno intanto bloccato l’export di armi verso la Turchia ma la soluzione della crisi in Siria non è in Europa, non lo è mai stata. Più probabile che qualche risposta arrivi da Mosca, che intanto ha annunciato lo schieramento di forze di interposizione tra gli eserciti siriano e turco per evitare scontri diretti. La Russia assicura anche di mantenere un contatto diplomatico costante con Ankara, che lo scorso luglio ha ricevuto proprio da Mosca il primo lotto di missili del sistema anti-missilistico S-400: il primo acquisto da parte di un membro della NATO da un Paese esterno al Patto Atlantico.
CREDIT: AFP
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