Il conflitto in Afghanistan contro il terrorismo entra nel suo diciassettesimo anno senza aver prodotto i risultati sperati. I gruppi terroristici continuano infatti a condurre violenti attacchi contro il Governo di Kabul e i civili. A ciò si aggiungono le influenze di diversi attori locali e internazionali spinti da contrastanti interessi geostrategici ed economici.
Attentati, droga e corruzione
Dopo diciassette anni di intervento militare occidentale contro il terrorismo internazionale di matrice islamista, Talebani, Stato Islamico e signori della guerra locali restano molto attivi in Afghanistan, mentre la situazione politica del Paese appare difficile e incerta. Dal 2001 al 2017 guerra e attentati hanno provocato la morte di 115mila civili, di cui 1.162 solo nell’ultimo anno.
La forte delusione popolare ha dato nuovo slancio alle azioni dei Talebani, che hanno riacquisito terreno e ora controllano ben 14 distretti, circa il 4% della superficie afghana. Dal 2015 si è stabilito su tale territorio anche un gruppo affiliato allo Stato Islamico, l’Islamic State Khorasan (ISK), con cui i Talebani si sono confrontati a colpi di attentati contro civili e Governo, specialmente nei primi quattro mesi del 2018. Lo scontro avviene per la leadership del jihad in Afghanistan, sia sul piano militare, sia su quello della propaganda e della dottrina, senza dimenticare che entrambi i gruppi hanno nel Paese interessi e affari milionari.
Il prolungarsi della guerra ha reso lo Stato afghano ancora più povero e arretrato, agli ultimi posti nella classifica mondiale del PIL procapite e con una forte corruzione governativa. La guerra ha peggiorato le precarie condizioni sociali e sanitarie, con uno scarso accesso all’acqua potabile, corrente elettrica disponibile in solo un terzo del Paese, aumento della mortalità infantile e del lavoro minorile. Il Paese dipende dal settore agricolo, esposto però alle variazioni stagionali delle colture e alla siccità. La maggior parte della popolazione, concentrata per il 73% in aree rurali, è costretta per sopravvivere a praticare la pastorizia e l’agricoltura. Per questi motivi si è affermata sempre più la produzione del papavero da oppio, maggiormente redditizio. La produzione di oppio in Afghanistan, secondo il rapporto annuale UNDOC, è in costante crescita e ha raggiunto la cifra record di circa 9.000 tonnellate nel 2017, con un incremento dell’87% rispetto all’anno precedente.
È un business enorme, gestito saldamente dai Talebani e dai gruppi tribali locali nella parte meridionale del Paese e da signori della guerra legati al Governo sostenuto dall’Occidente nella parte settentrionale. I Talebani riscuotono dai contadini una tassa del 5% del ricavato totale dell’oppio prodotto nei loro territori, mentre ai produttori va il 30% e il restante 65% è spartito tra funzionari di Governo e poliziotti corrotti, trafficanti locali e signori della guerra. Oggi l’oppio contribuisce al PIL afghano per il 60%, pari a 16 miliardi di dollari.
Crocevia d’interessi geostrategici ed economici
Per la sua posizione geografica al crocevia tra Asia centrale, Medio Oriente e Asia meridionale, l’Afghanistan è un naturale incrocio di progetti infrastrutturali. Nel Paese diversi attori regionali e internazionali, mossi da interessi geostrategici ed economici, tentano di influenzare le scelte del Governo di Kabul per il controllo del territorio, in particolare per il passaggio di pipeline di petrolio e gas (come nel caso del gasdotto TAPI, che dovrebbe portare lo Stato afghano a guadagnare ogni anno circa 500 milioni di dollari in diritti di transito e ottenere 5 miliardi di metri cubi di gas) e per lo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie non ancora estratte dal suolo locale.
L’Afghanistan detiene, infatti, risorse di petrolio, gas naturale e rilevanti giacimenti di ferro, rame, cobalto, oro, niobio e litio. Il disegno della Cina, legato al progetto “Nuova Via della Seta”, che punta a collegare la regione dello Xinjiang all’Afghanistan tramite il corridoio del Vacan, è quello di inserirsi nello scenario politico e strategico afghano, finanziando piani di sviluppo economici e sociali nell’ambito dell’agricoltura e delle infrastrutture, sviluppando così la sua rete commerciale per lo sfruttamento delle risorse minerarie. Il gigante minerario statale cinese Metallurgical Corporation of China ha già i diritti di estrazione sul deposito di rame di Mes Aynak e la National Petroleum Corporation dal 2015 si occupa delle esplorazioni dei giacimenti petroliferi.
Cina, Russia, Iran si stanno affermando sempre più come importanti partner commerciali e d’investimenti dell’Afghanistan, andandosi a scontrare con gli interessi nell’area, sia economici che strategici, degli USA. La conferma della presenza militare degli USA in Afghanistan, con l’aumento delle truppe annunciate dal presidente Trump nell’agosto 2017, così come la creazione di nuove basi militari, rientra nell’obiettivo di impedire a Cina e Russia di stabilire relazioni commerciali stabili con l’Afghanistan. La presenza militare degli USA non ha però impedito l’espansione dei rapporti commerciali e degli investimenti tra Cina e Afghanistan, con quest’ultimo che ha acquisito lo status di osservatore nell’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai (SCO).
La Russia si è avvicinata al Governo di Kabul, tentando di stabilizzare il Paese tramite un accordo tra il Governo centrale e i Talebani, sia in funzione economica, per futuri investimenti e accordi commerciali, sia in funzione di controllo sugli Stati dell’Asia centrale e del Caucaso, per realizzare un ordine regionale favorevole ed estendere la propria influenza diretta in Medio Oriente. Anche l’Iran ha consolidato la propria presenza nell’area, firmando dal 2016 diversi accordi e memorandum commerciali trilaterali con Afghanistan e India riguardanti sia il trasposto del grano indiano, tramite il porto iraniano di Chabahār, sia la costruzione di diverse linee ferroviarie, tra cui il progetto da 21 miliardi di dollari per la creazione del corridoio Chabahār-Hajigak. Il corridoio porterà a una riduzione del 60% dei costi di trasporto e del 50% dei tempi di trasporto dall’India all’Asia Centrale. In questo modo l’India avrà l’accesso, tramite l’Iran, sia all’Afghanistan che agli Stati dell’Asia centrale, aggirando il Pakistan, con cui le rivalità e le tensioni sono ancora forti a causa della contesa per la regione del Kashmir, oltre che creare un’alternativa concorrenziale al progetto cinese della Belt and Road Initiative (BRI). I progetti, in parte già avviati, potrebbero risentire della recente decisione di Trump di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano e di imporre sanzioni agli Stati che sceglieranno di collaborare economicamente con Teheran. Lo sviluppo dei progetti potrebbe rallentare o interrompersi a causa delle tensioni tra Iran e USA, in quanto banche e investitori sarebbero preoccupati nel continuare a investire nel Paese e ad accettare i progetti economici e commerciali della Repubblica islamica, a causa sia delle possibili nuove sanzioni che dell’incertezza sulle decisioni politiche di Washington.
Quale futuro possibile?
A oggi sono ancora troppi gli attori regionali e internazionali implicati nelle dinamiche afghane perché si possa pensare a una credibile e duratura pacificazione del Paese. Il nodo più difficile da sciogliere è comunque quello legato ai gruppi terroristici, in particolare con le diverse Shure ṭālebān, ancora sostenute per propri interessi da attori esterni, Pakistan e Russia in primis. Libero da guerra e gruppi armati, il Paese potrebbe divenire, tramite importanti accordi commerciali e d’investimenti, un attore economico molto rilevante a livello mondiale, grazie alle ingenti riserve minerarie e sfruttando la sua importante posizione geografica.
Un chicco in più
Se scegliessero le coltivazioni di cereali, mais e legumi, i contadini afghani guadagnerebbero un decimo rispetto a quello che guadagnano con il papavero da oppio. Inoltre la produzione di cereali non è competitiva, a causa del crollo del prezzo generato dall’incessante arrivo gratuito di numerose tonnellate di cereali dell’USAID e del programma alimentare ONU.
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