Lo scontro diplomatico delle ultime settimane tra Italia e Francia ha riportato all’attenzione dei media internazionali il vecchio tema del “neo-colonialismo” francese in Africa. Oltrefrontiera News ha provato a fare chiarezza sulla vicenda con Daniele Bellocchio, giornalista free lance che negli ultimi anni ha realizzato molti reportage sul continente africano per l’Espresso, Il Giornale, Paris Match, SportWeek, Africa, Nigrizia e il Reportage.
Quando e perché è nata l’ultima disputa diplomatica tra Italia e Francia, e perché questo scontro è collegato all’Africa?
Il vicepremier italiano Luigi Di Maio a fine gennaio ha dichiarato: “Se oggi la gente parte dall’Africa è perché alcuni Paesi europei con in testa la Francia, non hanno mai smesso di colonizzare decine di Stati africani”. Di Maio ha poi aggiunto, attaccando direttamente il presidente francese Macron: “Prima ci fa la morale, poi continua a finanziare il debito pubblico con i soldi con cui sfrutta l’Africa”. Alle parole di Di Maio hanno fatto eco quelle dell’altro uomo icona del Movimento 5 Stelle, Alessandro Di Battista: “Se non affrontiamo il tema della sovranità monetaria in Africa non se esce più”. La polemica è dovuta al franco CFA, la moneta in uso in 15 Stati africani. Ma per non limitarsi a quelle che sono delle schermaglie politiche e faziosità di schieramento e capire invece in concreto che cos’è il franco centrafricano, occorre spostarsi su un piano storico economico per avere così gli strumenti per comprendere la questione e poter giudicare individualmente quanto espresso dal vicepremier italiano.
Ci spieghi meglio?
Occorre innanzitutto dire che il franco CFA è una valuta creata nel 1945 e voluta da Parigi per esercitare un’evidente influenza su quelle che all’epoca erano le sue colonie e, più in generale, su quella parte di continente africano su cui da sempre aveva imposto un’egemonia culturale, linguistica, militare ed economica. Questa moneta è stata mantenuta anche dopo le indipendenze e oggi funziona in questo modo: i 15 Stati che oggi adottano il CFA, tra cui ci sono le Comore ma anche nazioni che non appartenevano all’impero coloniale transalpino come la Guinea Equatoriale e la Guinea Bissau, hanno due banche centrali – UEMOA per l’Africa Occidentale e CEMAC per l’Africa centrale – che battono moneta. Il legame con la Francia, come ha scritto il professore e onorevole Jean Leonard Touadi, ”è la parità fissa negoziata prima con il franco francese poi con l’euro nel 2000. Parità fissa che conferisce stabilità a questa moneta e convertibilità universale che fa comodo per le transazioni”. Ciò significa che da un lato il franco CFA ha il vantaggio, grazie appunto alla parità fissa, di tutelare questi Paesi dalle impennate inflattive che spesso fanno tremare gli Stati africani e poi, ovviamente, facilita gli scambi commerciali tra i Paesi che lo utilizzano. La contropartita? Ovviamente c’è, e sempre il professore Touadi ha spiegato: ”Questi 15 Paesi che adottano il franco per garantire questa stabilità presso la banca di Francia devono mettere in comune con la Francia il 50% delle loro riserve, ossia 14 miliardi di euro per i quali la Banca di Francia versa loro degli interessi con un tasso fisso d’interesse di 0,75 contro il tasso attuale dello 0,25% qualunque siano le fluttuazioni sul mercato monetario”. Quindi, la contropartita è la mancanza di sovranità monetaria.
Fatta questa necessaria premessa, come inquadrare allora le accuse di Di Maio nei confronti della Francia?
Tracciato il quadro generale di cos’è il CFA ritorniamo alla polemica sollevata dal vicepremier Di Maio, ovvero, il sillogismo per cui la moneta africana sarebbe uno dei fattori eziologici del flusso migratorio dall’Africa verso l’Europa. Il legame in questo caso non è così forte come invece ha sostenuto il leader dei 5 stelle, e a dirlo sono i numeri: tra gli oltre 23mila migranti sbarcati in Italia nel 2018 quelli provenienti dai Paesi che usano la valuta, erede del franco delle colonie francesi d’Africa, sono meno del 9 per cento. Nella lista dei Paesi di origine dei migranti sbarcati sulle nostre coste, il primo Paese che usa il franco CFA è la Costa d’Avorio, ed è solo l’ottavo tra i Paesi di provenienza.
Cosa sta facendo davvero la Francia in Africa? Parigi come tutela i propri interessi ? E quali sono i principali attori che si muovono nel continente africano?
E’ un’evidenza lapalissiana che l’Eliseo ha delle attenzioni particolari nei confronti di quelle che furono le sue colonie. Lo sfruttamento dei giacimenti di uranio in Niger da parte della multinazionale transalpina Areva, oggi Orano (dopo il tracollo economico che nel 2017 ha travolto l’azienda) è uno dei casi più lampanti di come Parigi cerchi di mettere mano al forziere africano. A Parigi fanno gola anche i giacimenti di greggio presenti in Africa. Total è un nome che riassume perfettamente questo assunto. La Francia non è però l’unica nazione che cerca di far fruttare i propri interessi nel continente. L’Africa, com’è stato in passato, anche oggi attira gli appetiti di molti attori. La Russia si è riaffacciata con prepotenza e non vuol rimanere tagliata fuori dalle dirette concorrenti, in particolare Cina e Usa. A riprova di ciò la visita l’anno scorso del ministro degli Esteri russo Lavrov in quelli che furono i Paesi un tempo allineati al blocco sovietico (Mozambico, Etiopia, Zimbabwe), senza scordare che nel 2017 Mosca ha esportato 15 miliardi di dollari di armi in tutto il mondo, e l’Africa ha rappresentato il 13% della vendita delle armi russe negli ultimi 5 anni.
Cina e Stati Uniti che partita stanno giocando, invece?
Per quel che riguarda la Cina c’è poco da dire se non leggere i dati e rendersi conto di come il Celeste impero sia sempre più penetrante nel continente africano. Il Dragone è infatti il principale partner commerciale dell’Africa dal 2009, e negli ultimi dieci anni ha investito nel continente ben 125 miliardi di dollari. A settembre Pechino ha annunciato di contribuire allo sviluppo dell’Africa con un investimento di 60 miliardi di dollari tra prestiti e investimenti in infrastrutture. Ovviamente una contropartita c’è, anche in questo caso, e corruzione, distruzione dei giacimenti a causa dell’eccessivo sfruttamento e inquinamento sono alcuni tra i grandi problemi che la Cina sta esportando in Africa. Ecco ora il capitolo USA. Donald Trump non aveva mai mostrato particolare interesse per il continente africano, basti pensare che aveva impiegato più di un anno prima di incontrare il leader di una nazione africana. Ora però anche Washington sembra aver deciso di guardare verso l’Africa e infatti a dicembre 2018 il consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti John Bolton ha sollevato il velo sulla nuova politica a stelle e strisce nel continente, che si fonda su due principi cardine: aumento del commercio con le nazioni africane e contrasto all’estremismo. Infine la Turchia. Il sultano Erdogan non fa mistero delle sue mire verso l’Africa, soprattutto per quelle regioni di interesse geopolitico come sono il Maghreb, il Sahel e il Corno d’Africa. In tre anni dal 2015 ad oggi il leader turco ha visitato ben 15 Paesi africani, la sua strategia è quella di tessere legami in chiave economica, politica e facendo leva anche sul fattore religioso che accomuna la Sublime Porta con diversi Stati del continente africano. Caso paradigmatico della strategia turca in Africa è la relazione con il Sudan del ”caudillo” Omar al Bachir, Paese controverso, spesso connivente con le sigle dello jihadismo internazionale, di assoluta importanza strategica e con il quale Erdogan ha stretto 13 accordi che mirano a portare gli scambi tra le due economie dai 500 milioni di dollari all’anno a 10 miliardi.
E i Paesi del Golfo Persico?
Se si parla di Turchia non si può poi non parlare anche di quelle che sono le mire dei Paesi del Golfo. Nel Corno d’Africa infatti da anni è in corso una guerra commerciale che vede Qatar e Turchia contrapposti ad Arabia Saudita ed Emirati. Tutti i contendenti vogliono mettere le mani su quella striscia costiera che tocca Sudan, Eritrea, Gibuti, Puntland, Somaliland e Somalia, strategicamente fondamentale sia per quel che riguarda i commerci ma anche dal punto di vista militare. Per rendersi conto dell’importanza che ha lo stretto di Bab el Mandeb basta prendere in considerazione questi dati e poi sarà immediato rendersi conto del perché due blocchi contrapposti, che vedono scontrarsi il più grande esportatore di petrolio e il Paese con il maggior numero di riserve di gas naturale, stanno combattendo per aggiudicarsi il braccio di mare che lega l’ Oceano Indiano con il Mar Rosso. Secondo il dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti nel 2016, 4,8 milioni di barili al giorno di petrolio greggio sono passati attraverso questo stretto. Di questi, circa 2,8 milioni erano diretti a nord verso l’Europa, e altri 2 milioni nella direzione opposta. Il controllo di questa via d’acqua è quindi di un’importanza assoluta per gli scambi tra Mediterraneo e Asia, ma anche per quel che riguarda l’import-export di greggio dal Medio Oriente verso Europa e Nord America.
Condivide l’opinione che il Califfato 2.0 stia nascendo in Africa? Come si può fermare tutto questo?
Per quel che riguarda l’espansione dello jihadismo e dell’islamismo radicale in Africa bisogna parlare in modo molto chiaro e diretto: l’Africa è sempre più stretta nella morsa del terrorismo. Come ha scritto il ricercatore Marco Cochi nel suo ultimo libro Tutto cominciò a Nairobi, dal 2006 ad oggi gli attentati terroristici sono aumentati del mille per cento. E ora le formazioni di matrice islamista sono presenti in tutta la fascia saheliana ma anche in regioni dove sino a pochi anni fa nessuno avrebbe pensato che riuscissero a inserirsi: Boko Haram, la branca africana dell’Isis, è in Nigeria e nel Bacino del Lago Ciad, Jama’at Nusrat al-Islam wal Muslimeen è radicata in Mali e utilizza le porose frontiere per espandersi a macchia d’olio nella regione, quindi dall’Algeria al Burkina Faso, e poi ci sono gli strenui Al Shabaab in Somalia. Ma non è finita perché un gruppo jihadista è ora attivo anche nel nord del Mozambico e pure nella regione settentrionale della Repubblica Democratica del Congo si annovera la presenza di una formazione ribelle che vanta legami con gli Shabaab somali: gli ADF. Come sconfiggere l’islamismo? La sola risposta militare non è sufficiente. L’islamismo si alimenta grazie anche a due fattori: la miseria e l’ignoranza. Interventi mirati nelle zone di crisi a sostegno della popolazione e un impegno concreto a combattere la disoccupazione sono delle armi molto potenti per contrastare l’espandersi dello jihadismo. In questo modo si impedirebbe che la rabbia e la frustrazione dei giovani che non hanno lavoro e la disperazione delle persone travolte dalle crisi umanitarie possano venire strumentalizzate dai terroristi islamici.
Stefano Piazza
Giornalista, attivo nel settore della sicurezza, collaboratore di Panorama e Libero Quotidiano. Autore di numerosi saggi. Esperto di Medio Oriente e terrorismo. Cura il blog personale Confessioni elvetiche.
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