Ayman Al-Zawahiri, l’eterno numero due di Al Qaeda, è morto a Ghazni, Afghanistan, per complicazioni dovute all’asma. O, in ogni caso, per mancanza di accesso alle cure. La fonte principale è Arab News Pakistan, che ha confermato dopo aver sentito quattro fonti diverse in Pakistan e in Afghanistan legate all’internazionale del terrore islamico. L’ultimo suo messaggio, pieno di retorica e poco più, era stato registrato in occasione dell’anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle lo scorso 11 settembre. La sua morte segue l’uccisione in circostanze misteriose del suo numero due, Abu Muhammad al-Masri, eliminato nelle strade della capitale iraniana Teheran lo scorso 7 agosto, forse per mano dei servizi segreti israeliani.
Si tratta di una notizia molto importante nel contesto geopolitico, poiché il leader ideologico di Al Qaeda (69 anni) era il ricercato numero uno al mondo, dopo che l’intelligence Usa aveva stanato e ucciso Osama Bin Laden (2011) e il suo erede designato Hamza Bin Laden (2020).
Ad aver rimpiazzato il medico-terrorista Al Zawahiri al vertice di Al Qaeda, secondo l’intelligence Usa, è stato l’ex colonnello dell’esercito egiziano Saif al-Adel, ritenuto uno dei responsabili degli attentati contro le ambasciate statunitensi del 1998 in Kenya e Tanzania, che segnarono l’ascesa di Al Qaeda nel jihad internazionale e dello stesso medico egiziano. Sinora, l’intelligence americana riteneva che Al Zawahiri gestisse l’internazionale qaedista dalle sperdute province al confine tra Afghanistan e Pakistan, dal lato però di Islamabad: in quelle impervie e inospitali aree tribali controllate dai clan di etnia Pashtun. Si trovava invece nella cittadina di Ghazni, ricca di minareti costruiti in fango e mattone crudo, e teatro di una recente offensiva militare dei talebani, che nell’agosto del 2018 li aveva portati alla conquista di tre distretti della provincia omonima, consolidando il loro potere locale. La battaglia faceva parte di una più ampia offensiva coordinata dei talebani, che ha portato all’uccisione di centinaia di soldati e poliziotti afgani e ha permesso ai talebani di catturare diverse basi e distretti governativi. Non vi è alcuna informazione che indichi in Al Zawahiri il comandante dell’offensiva del 2018; più probabilmente, si è recato
là dopo che l’area era diventata per lui un rifugio sicuro (essendo Al Qaeda e i talebani alleati).
Controverso e riservatissimo, Ayman Al Zawahiri si unì al progetto di Osama Bin Laden alla fine degli anni Ottanta, quando una parte via via crescente del mondo islamico si mobilitò contro l’invasione dell’Afghanistan, accorrendo in aiuto dei mujaheddin che si battevano contro i sovietici. Si formarono allora alcuni gruppi internazionali di sostegno: tra questi, il Makthab al-Khidamat o MAK (in arabo «ufficio servizi»), creato da un teologo palestinese aderente alla Fratellanza Musulmana di nome Abdullah Yusuf Azzam. Il quale, durante un periodo in Arabia Saudita, aveva conosciuto Osama Bin Laden. Al Zawahiri crebbe tra preghiera, teologia e la stesura di numerosi libri. Ma agli inizi degli anni Ottanta militava già nei gruppi islamisti egiziani e fu arrestato insieme ad altre centinaia di persone dopo l’assassinio di presidente Sadat (6 ottobre 1981), realizzato da elementi della Jihad Islamica egiziana. Scarcerato, divenne il protagonista della scissione del movimento che si divise tra un’ala «movimentista», che prese il nome di Al-Jama’a al-Islamiyya; e un gruppo «militarista», capeggiato dallo stesso Al-Zawahiri e che mantenne il nome originario di Al Jihad.
In Afghanistan incontrò Osama Bin Laden, con il quale lavorò nel MAK e contribuì a fondare Al Qaeda. Nel 1989, alla fine della guerra contro i russi, rientrò in Egitto e impresse un indirizzo sempre più oltranzista al gruppo Al Jihad, reclutando anche militanti per la guerra in Cecenia. Nel 1998 si riunì con Bin Laden e insieme emisero la celebre fatwa che fornirà la base della dottrina jihadista di Al Qaeda: «Il Fronte Islamico Mondiale contro gli ebrei e i crociati». Da qui, i primi attacchi contro le ambasciate statunitensi.
Sull’onda di quell’ideologia fondamentalista, Al Qaeda fu concepita per essere una struttura centrale ridotta e mobile, che basava la propria forza e propaganda su attentati eclatanti e omicidi eccellenti, facendo costante ricorso all’uso di esplosivi contro obiettivi plurimi, portati a termine da cellule operative molto snelle e indipendenti dalla base, per quanto riguarda la fase esecutiva. In questo modo, la dirigenza qaedista è potuta sfuggire per decenni a catture o battute d’arresto. I nemici di Al Qaeda, nella teorizzazione di Al Zawahiri, sono sempre stati gli Usa, quindi gli ebrei e i governi dei Paesi musulmani «apostati» perché non rispettosi della legge islamica, così come riporta la fatwa emessa nel 1998.
Divenuto braccio destro e fedelissimo di Bin Laden, grazie anche ai soldi e alle aderenze politiche del primo Al Zawahiri ha espanso la base qaedista, creando filiali dal Maghreb islamico (AQIM) alla penisola araba (AQAP); dal subcontinente indiano (AQIS) all’Egitto; da Al-Shabaab in Somalia al Jama’at Nusrat al-Islam wal- Muslimin (JNIM) in Mali; all’Africa Occidentale ad Hayat Tahir al-Sham (HTS) in Siria. Una rete micidiale, insomma, che ogni anno continua a compiere centinaia di attacchi diffusi in ogni area del globo e che, tra l’altro, non disdegna di legarsi sovente a traffici criminali per foraggiare la propria guerra agli infedeli; soprattutto da quando l’Arabia Saudita e altri principi arabi hanno tagliato i fondi destinati al jihad internazionale (più per paura di ritorsioni e sanzioni, che non per un rinsavimento).
Dopo la morte di Bin Laden, Al Zawahiri ha dovuto fronteggiare l’emergere di Abu Bakr Al Baghdadi e dell’ISIS, che hanno offuscato per un lungo momento l’immagine di Al Qaeda, imponendosi come gruppo concorrente nella guida del Jihad internazionale grazie alla forza del brand e alla chiamata alle armi divenute via via più efficaci e affinate. Fino a che il Califfato costituito a cavallo tra la Siria e l’Iraq tra i 2014 e il 2018 non è stato spazzato via. Sebbene inizialmente il medico egiziano è sembrato cedere terreno e in procinto di abdicare in favore dello Stato Islamico, in realtà già nel 2014 ha risposto annunciando la nascita di Al Qaeda nel Subcontinente Indiano, scommettendo su un’area dove il bacino di potenziali jihadisti è enorme. Soprattutto, se messo in relazione con la crescita annuale della popolazione musulmana che, secondo numerosi studi, nel 2030 crescerà del doppio rispetto al resto degli abitanti del pianeta.
Si noti, infatti, che l’India è il secondo Paese al mondo per presenza di musulmani (circa 177 milioni) insieme al Pakistan (circa 178 milioni) e al Bangladesh (circa 148 milioni), superati solo dall’Indonesia (oltre 200 milioni).
Ciò significa che Al Zawahiri ha compiuto una scelta strategica, consapevole e ragionata, dovuta non tanto alla sua diminuita influenza in Medio Oriente, quanto all’intuizione del primato demografico.
E questo preoccupa ben più della domanda su chi abbia preso le redini di Al Qaeda dopo il suo funerale. La notizia della sua morte, se confermata, è comunque un sollievo. Ma la sua pericolosa eredità resta una minaccia immanente e trasversale alla geografia e a ogni tipo di entità statale fondata sul secolarismo e sul rifiuto dell’Islam politico.
Per approfondire: I semi del male. Da Al Qaeda a ISIS la stirpe del terrorismo, dei giornalisti S. Piazza e L. Tirinnanzi
Articolo pubblicato su Panorama
PHOTO: An extract from a video broadcast on the Qatar-based Al-Jazeera network 09 June 2006, shows Ayman Al-Zawahiri, the number-two in Al-Qaeda terror network, speaking in a new videotape obtained by the news network. The number two of terror group Al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, spat defiance 23 January 2006 at US President George W. Bush who had announced the sending of more than 20,000 soldiers to Iraq, saying in an online audio message that he should send his whole army to be annihilated. AFP PHOTO/AL-JAZEERA
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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